“Sono orgoglioso di questo film perché è arrivato al Tribeca in selezione con 8700 altri film in concorso, è entrato insieme ad altri nove ed è l’unico pezzo di Italia al Tribeca quest’anno, arrivato tramite un reietto, esiliato, che sta in un’isola caraibica”. Così ci ha accolto Ettore D’Alessandro in un bar di Bushwick, dove, sotto a un inatteso sole primaverile, ci ha raccontato la storia della sua vita e del suo film.
Sambá è il primo film dominicano nella storia a essere arrivato al Tribeca Film Festival e per Ettore che lo ha scritto, prodotto e recitato come attore è molto di più di una vittoria. È l’inizio di una nuova fase di vita.
Ettore è nato nel 1975 a Casale Monferrato, un piccolo paese del Nord Italia, come Ettore Trombin, ma detesta il suo cognome “dal primo appello del primo giorno di scuola” e da grande ha deciso di diventare D’Alessandro. La sua vita è stata fin da piccolo piena di sfide e di scommesse: a 14 anni era una promessa del calcio, ma a causa di una malattia alle ginocchia ha dovuto smettere, poi – come ci ha raccontato lui stesso – ha creduto che sarebbe diventato il campione del mondo in motocicletta, è arrivato a correre nei campionati nazionali, ma un incidente al Mugello lo ha messo fuori gioco per sempre. Prima di partire per Roma, all’età di vent’anni, si è fatto esonerare dal servizio militare obbligatorio, e, prima ancora di uscire dalla stazione Termini, ha deciso che non sarebbe mai più tornato a casa. Sarebbe diventato un attore.

Dopo alcuni anni romani, in cui ha scritto e diretto alcuni cortometraggi e studiato cinema, ha preso un aereo per gli Stati Uniti ed è arrivato a Miami, dove è rimasto oltre il tempo stabilito dal visto turistico, trasformando l’America nella sua casa per un po’. Poi sono arrivati Los Angeles, i corsi di recitazione, lo studio, i lavoretti per mantenersi e un matrimonio andato male. E dopo tre anni, il rimpatrio forzato, per aver trascorso un periodo di illegalità senza visto negli Stati Uniti.
In Italia Milano e Roma, alcuni lavori importanti nel cinema, una parte nel film Mary di Abel Ferrara, alcuni programmi televisivi, un lavoro come assistente di produzione, e poi Carolina, una modella dominicana conosciuta a Milano che poi è diventata la madre di suo figlio Hector Javier e la sua produttrice esecutiva. Infine la Repubblica Dominicana, per ricominciare, aprirsi un ristorante e doverlo chiudere dopo meno di un anno per fallimento. Poi la scoperta della legge sulla giovane imprenditoria cinematografica a Santo Domingo, l’apertura, insieme a Carolina, di Ecah Film, la sua casa di produzione e tre anni di lavoro per realizzare Sambá, “un film dominicano in cui batte un cuore italiano”.
Il film di Ettore D’Alessandro contiene tutto questo e anche di più: prodotto interamente dalla Repubblica Dominicana con un budget di un milione e 600.000 dollari, Sambá vanta la presenza dell’attrice della serie Orange is the new black Laura Gómez, dell’attore Algenis Perez Soto, conosciuto per Sugar (2008) e Isolated victim (2017), la regia del duo di registi Laura Amelia Guzmán (dominicana) e Israel Cárdenas (messicano), famosi per aver girato il film Dólares de arena nel 2014 e la presenza di due campioni di pugilato, il due volte campione del mondo Joan Guzman chiamato “the Little Tyson” e Felix “Mangu” Valera, campione dei pesi medi.
Il film, che prende il nome dal sacco da pugilato in spagnolo, è una storia che parla di boxe, di incontri e di coscienze allo specchio, in una Santo Domingo che si offre come “personaggio” della storia a tutti gli effetti.
Di che cosa parla Sambá?

“Sambá è una storia di fallimenti, di seconde opportunità. Io preferisco le seconde opportunità alle prime, perché ci arrivi con più consapevolezza ed esperienza. Sambá è una storia di redenzione. Nel film ci ho messo moltissimo di me e di quello che penso della vita adesso: a volte proviamo a ottenere quello che vogliamo ma non siamo pronti, come è successo a me finora; ho sempre forzato le cose inutilmente, perché volevo arrivare da qualche parte e soltanto adesso che ho 41 anni mi sento davvero me stesso e sento di essere centrato, e infatti stanno succedendo un sacco di cose che desideravo a 20 anni. Tanti anni fa, a Roma, stavo girando un cortometraggio che avevo scritto e prodotto che si chiamava Reset, stavo facendo un casting e si è presentato un signore adulto – io avevo vent’anni e lui ne aveva quaranta – con una grandissima umiltà. Quando l’ho visto, per un momento ho pensato “Non voglio diventare così alla sua età”. Avevo paura di arrivare alla sua età senza lavoro e di non essere realizzato. Dopo pochi anni lui è diventato un attore straordinario e conosciutissimo, che non ha più smesso di lavorare: era Giorgio Colangeli! Capisci cosa voglio dire?”.

Perché hai scelto di raccontare una storia che parla di pugilato?
“Io ho cominciato a boxare quando sono arrivato a Los Angeles tanti anni fa, mi fa bene, mi pulisce la mente. Ma non l’ho mai considerata una possibilità di lavoro, perché è una cosa mia, è il tempo che dedico a me stesso. La boxe, per me, è la metafora più vicina alla vita, soprattutto a livello cinematografico: da quando vieni al mondo, la vita ti prende a schiaffi e quello che devi fare tu è rispondere ai pugni e rialzarti. La nostra idea per il film era di trattare la boxe allontanandoci dai cliché cinematografici. Di Rocky ce n’è uno e non saremmo mai stati in grado di farne un altro. Volevamo raccontare una storia di genere in un’ottica nuova, diversa, fresca, anche per renderla interessante. La boxe, poi, è stata parte integrante dell’allenamento mio e dell’attore principale, Algenis, che non aveva mai boxato in vita sua. Ci siamo allenati nella Cienega, un quartiere di Santo Domingo, con un italiano che si chiama Dheny Paris, il padre di Sven Paris, il campione del mondo, che si è trasferito a Santo Domingo e allena pugili. Negli ultimi mesi ci siamo allenati con lui nella sua palestra, insieme a tanti ragazzi giovani”.
Sambá non parla di vittorie in senso classico, diversamente da molti film sulla boxe.
“Questo è un film che parla di perdenti. E poi ci sono vari livelli, a seconda di quanto scavi con lo sguardo. Nichi, il mio personaggio, per esempio, ha un occhio orbo. Se perdi un occhio perdi la profondità, perdi 180 gradi di vista e non puoi più fare il pugile. E lui perde tutto questo nell’incontro più importante della sua vita, quello che precede il suo successo mondiale. Questo significa che la vita ti toglie qualcosa nel momento in cui sei vicino al tuo obiettivo massimo. Quello per me era l’America per esempio. A me hanno tolto i documenti e non potevo più entrare in America, mentre a Nichi hanno tolto un occhio e non può più salire sul ring. Si è trasferito in Repubblica Dominicana per sopravvivere e quando incontra Cisco, il pugile giovane, sente di poter vivere finalmente la gloria che non gli è più concessa tramite un’altra persona”.
Sembra che questo film sia una metafora di tante cose per te.
“Quando ero fuori dagli Stati Uniti forzatamente – sono 12 anni che non torno – mi sentivo in una situazione di prigionia fuori dal carcere, in esilio. È una cosa lacerante, perché tutti i giorni sai che c’è un pezzo grande di mondo in cui non puoi accedere ed è esattamente il pezzo di mondo in cui vorresti vivere in quel momento e in cui vorresti realizzarti. Grazie a questo film molte cose si sono sbloccate, tra cui la mia possibilità di rientrare negli Stati Uniti dopo dieci anni. Questo film per me è un simbolo di tante cose, ci ho messo molto del mio vissuto nella sceneggiatura: la storia non parla di vincere o perdere, ma di imparare a rialzarsi quando si cade. Ci sono delle volte in cui vai dritto verso il tuo obiettivo, ma altre in cui, grazie alla redenzione, puoi aggiustare le cose. Nel caso del film, è il figlio ad aggiustare tutto”.

Ti sei identificato con un personaggio in particolare del film?
“Credo di essere un po’ in tutti i personaggi che ho inventato. Ogni personaggio si arricchisce tramite altro, tramite l’attore che lo interpreta e tante altre cose che non dipendono da me. In alcuni c’è la realtà, in altri c’è l’estensione del desiderio. In uno ci sono le mie paure e nell’altro ci sono i miei sogni”.
Questo film è più italiano o più domenicano?
“Questo film è domenicano per più di una ragione: innanzitutto è la Repubblica Dominicana che mi ha permesso di realizzarlo, che lo ha pagato e che ci ha creduto. La storia si ambienta nella Repubblica Dominicana e abbiamo voluto che la città fosse un “personaggio” del film. Non abbiamo ritratto quello che i tour operator mostrano nei depliant di viaggio, le spiagge, i posti idilliaci, i paradisi, perché lì tutto smette di essere interessante a livello cinematografico. Ci piaceva l’idea di esplorare e abbiamo scelto due quartieri: Ciudad Nueva, al lato della zona coloniale, simile alla parte antica di L’Avana, è un quartiere tradizionale, dove puoi trovare un po’ di tutto. Avrei potuto ambientarlo in un quartiere più cinematografico, in cui si mostra la violenza, il pericolo e quelle cose lì, ma ho preferito di no. Poi c’è il quartiere in cui si ambientano i combattimenti di boxe, Villa Consuelo, è grande, caotico, frenetico, a volte sembra l’India. Perciò il film è dominicano, perché cerca di esaltare il Paese e di raccontarlo, senza giudicarlo, ma ha un cuore italiano, che c’è e inevitabilmente si sente, che parla italiano e agli italiani”.

A chi è rivolto il tuo film?
“A tutti quelli come me, che sono tanti. Mi piace che il film possa essere di ispirazione per qualcuno, ma non il film in sé, che può piacere o meno, ma quello che ci sta dietro, il mio messaggio. Questo film parla a me allo specchio innanzitutto. A mio figlio, al quale cerco di insegnare ogni giorno la libertà di fare ed essere quello che vuole e di pensare che quello che gli piace fare può diventare il suo lavoro. Non è un miracolo: lavora duro, sogna in grande e si realizzerà! Adesso che ho 41 anni sembra che le cose si stiano mettendo bene per me e sto realizzando quello che avrei voluto a vent’anni, ma non ero pronto. C’è gente che a vent’anni capisce fin da subito qual è il cammino da percorrere e altri che invece hanno bisogno di fare il giro largo per capirlo e per arrivarci. Quante persone sanno giocare meglio dei calciatori che giocano negli stadi? Una marea. Ma magari gli manca qualcosa per arrivare. Per esempio mio fratello era stato contattato dal Milan da piccolo, ma lui voleva suonare il basso e ha detto di no. E adesso ha composto una parte della colonna sonora del mio film, perché volevo coinvolgere le persone importanti per me in questo progetto”.
Che cosa vuoi comunicare con questo film?
“Quando mi chiedo ‘A che punto sei?’ So che fino a ieri ho fallito sempre e lo dico senza problemi. Oggi sento che tutte le volte che sono caduto ho trovato più forza per alzarmi e tutti i fallimenti sono stati il motore della mia forza. Oggi sono quello che sono anche grazie a quei fallimenti. E poi credo di essere il prototipo della persona normale, che è una cosa che mi ha sempre spaventato: non abbastanza bello per essere un bello, ma non abbastanza brutto per essere un brutto, non abbastanza bravo per stare tra i bravi, ma non abbastanza incapace da stare tra gli scarsi. Sono sempre stato nel mezzo delle cose. Però questo essere in between crea spazio ad altre cose, perché dove non arrivi con la bellezza ci arrivi con l’intelligenza e con le tue capacità e così via. Vorrei che arrivasse questo a chi guarda il mio film”.

A un certo punto un personaggio del film dice “Vaffanculo Italia”: è un tuo messaggio all’Italia?
“Sì, quello sono io. Io con l’Italia ho un rapporto troppo conflittuale e mi dispiace farlo vivere anche a mio figlio, che invece la ama perché è nato lì. Sto cominciando a riavvicinarmi all’Italia psicologicamente, piano piano. L’Italia mi ha dato le cose più importanti della mia vita, che sono Carolina, mia moglie, e mio figlio. Per quanto riguarda il lavoro, sento che mi ha tolto tutto, invece, mi ha tolto ogni possibilità. Il tempo che ho passato lì sento di averlo buttato via. Il lavoro più stabile che ho avuto nel cinema è stato come assistente di un produttore, a cui facevo il caffè e chiedevo disperatamente (e invano) di leggere le cose che scrivevo. Così, ogni volta che mi avvicinavo a un livello più alto, c’era sempre qualcosa che bloccava tutto. La mia situazione è la situazione di molti, purtroppo, è un problema diffuso in Italia, è qualcosa che ha a che fare con tutto il nostro sistema”.
Cos’è che non ti piace dell’Italia?
“Come ti dicevo, ha a che fare con il nostro modo di fare. La raccomandazione, per esempio, è una cosa giusta, se avviene in un certo modo, perché se viene un imbianchino a casa tua, che è molto bravo e non lo paghi più del dovuto, tu lo raccomandi ai tuoi amici. Lui lavora di più perché se lo merita e sono tutti soddisfatti. Noi italiani abbiamo dato un’accezione negativa alla raccomandazione, perché la usiamo in un modo sbagliato: diventa nociva quando non si basa sul merito reale, ma su altre cose che non servono a nulla. Oppure se io dico di voler fare il calciatore o il regista, in Italia tutti mi guardano con ironia e cinismo e oltre tutto non c’è un percorso prestabilito da seguire per riuscirci, è tutto lasciato al caso. Qui in America invece sai cosa devi fare per riuscire nei tuoi intenti, è un’industria, è reale. Ci sono borse di studio per tutto, anche per lo sport. Da noi è ipocrita dire a chi da piccolo ha dei sogni che non ne vale la pena, che è meglio scegliere un’altra carriera, perché, se poi diventi Francesco Totti, guadagni tantissimo, sei famoso e sei il re di Roma. Allora mi chiedo, perché non possono sognare tutti di fare il calciatore come Totti?”.

Che rapporto hai con la tua nuova casa, la Repubblica Dominicana?
La Repubblica Dominicana per me è stata magica. Oltre a realizzare Sambá, lì ho conosciuto l’editore, Foschi Editore, che pubblicherà il mio primo libro in Italia. Eravamo in una spiaggia a mangiare del pesce fritto, abbiamo parlato per ore e alla fine della conversazione Massimo mi ha detto che la mia storia era interessante, allora gli ho mandato il libro e un anno dopo lo stiamo per pubblicare. Si chiamerà, almeno per ora, Senza fiato e da quello è tratto il secondo film che stiamo preparando. È un crime, un drama, una storia d’amore, una visione dura che non vuole giudicare la situazione, ma che racconta una faccia della Repubblica Dominicana diversa rispetto a Sambá . La vita quotidiana, il narcotraffico, il lavaggio di denaro, l’assenza di regole. Da cinque anni la Repubblica Dominicana è casa mia e quando penso a casa penso a quei posti. Ho anche voglia di tornare negli Stati Uniti, ma quella sarà sempre casa mia. L’ho trovata da grande, perché non è detto che il Paese in cui sei nato sia per te il posto in cui tornare sempre, poi a me piace sentirmi cittadino del mondo, mi piacerebbe viaggiare sempre senza biglietto di ritorno”.
Perché hai scelto Guzmán e Cárdenas per la regia del tuo film?
“Li abbiamo scelti perché pensavamo che fossero la scelta adeguata a questo progetto. Loro vengono dal documentario e dal cinema poetico e autoriale. La nostra idea era di creare un film che fosse a cavallo tra l’art film e il commerciabile, per vendere il film e non tenerlo nel cassetto”.

Com’è stato lavorare con i registi?
“Questo è il primo film che girano e non hanno scritto loro. Io ho scritto la sceneggiatura e con Carolina abbiamo scelto i registi perché era una sfida, perché loro sono autoriali, basta guardare Dolares de arena per capirlo. Volevamo portare la loro voce nel nostro film. Da lì abbiamo lavorato insieme, siamo intervenuti durante il montaggio lungo l’anno di post-produzione del film e abbiamo organizzato più di venti proiezioni del film per capire cosa funzionava e cosa no. Ci sono stati tantissimi cambiamenti, è stato un lavoro di gruppo. La regia è loro, ma ci sono sempre stati due produttori che sapevano quello che volevano. Per esempio nei loro film non c’è musica, mentre nel nostro film la musica è molto presente. E poi questo è il primo film che loro realizzano con una struttura produttiva solida, con un buon budget. Un film è una famiglia, è un matrimonio durato a lungo, dal primo momento all’ultimo il film è durato tre anni pieni”.
Quali sono i progetti futuri di Ecah?
“Sambá starà in giro per un po’, tra un festival e l’altro e nelle sale, negli Stati Uniti e anche in Italia (spero Roma). Nel futuro abbiamo due o tre progetti da girare a Santo Domingo e poi vorremmo spostarci qui negli Stati Uniti, o a New York o a Los Angeles. Per ora abbiamo due film in programma: uno dei due film è una commedia co-prodotta con la Spagna, che gireremo quest’anno in Repubblica Dominicana e alle Canarie. E poi l’anno prossimo ci sarà il crime-drama tratto da libro che pubblicherò a breve in Italia, che sarà girato a Santo Domingo. Questo film tornerà a parlare di me e a me: l’ho scritto, lo produrrò, farò la mia parte come attore e lo dirigerò come regista, così chiuderò un cerchio, avrò finito la mia espiazione, uscirò dal carcere e potrò anche pensare di cambiare lavoro finalmente!”.
Guarda il trailer di Sambá: