Edoardo Albinati racconta, ne La scuola cattolica (Premio Strega 2016), i “ragazzi bene” della Roma degli anni ’70: adolescenti alla ricerca di sé e di precisi modelli di maschilità, in un universo ovattato creato per proteggerli. Ma dal quale, per motivi apparentemente paradossali, uscirono anche gli assassini del Massacro del Circeo.
Nato negli anni ’50, romano, Albinati introduce nel romanzo elementi della sua stessa biografia e di un periodo storico vissuto in prima persona. L’autobiogrfia non è nuova nella sua produzione letteraria, ma qui Albinati si muove sulla linea di confine tra fatti storici, memoria e fiction.
Giornalista, traduttore e sceneggiatore, Albinati lavora da anni come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, esperienza che racconta nel libro autobiografico, Maggio selvaggio (1999).
Lo scrittore in questi giorni è a New York dove martedì 21 febbraio, alle 7pm, incontrerà il pubblico per An evening with Edoardo Albinati, evento in lingua italiana organizzato da CIMA (Center for Italian Modern Art) e Casa delle Letterature di Roma. Lo scrittore sarà intervistato da Alessandro Giammei, della Society of Fellows in the Liberal Arts di Princeton University.
In attesa dell’evento, lo abbiamo incontrato per parlare del suo libro, di educazione e di una società ancora in cerca di modelli.
Che cosa c’è alla base del libro? Da dove nasce?
“Ho lavorato a questo libro per circa dieci anni, da quando nel 2004 Angelo Izzo, uno dei responsabili del Massacro del Circeo del 1975, tornato in semilibertà, uccise altre due donne. A quel punto è scattata in me la scintilla di cercare di ricostruire gli anni di scuola al liceo San Leone Magno di Roma, una scuola privata e cattolica gestita dai padri maristi, frequentata dai ‘figli di papà’ di un quartiere bene di Roma (il Quartiere Trieste). Cosa succedeva in quegli anni? Come mai io e Izzo, che abbiamo fatto gli stessi studi nella stessa scuola negli stessi anni, abbiamo preso strade tanto diverse poi? Peraltro, la parte notevole del libro – più che la sua lunghezza – è il punto di vista che ho scelto: diversamente da come è stato sempre trattato, cioè a colpi di sensazionalismo che suscitavano indignazione ma non andavano mai oltre il giornalismo, io ho scritto del Massacro con uno stile antiretorico e spassionato. E ho scritto un romanzo”.
Un romanzo caratterizzato da un forte narratore, che parla in prima persona e che invita anche il lettore a saltare pagine e capitoli, se annoiato.
“Sì, in un libro tanto voluminoso e denso, il lettore potrebbe smarrirsi, allora ho scelto questo espediente lievemente ironico, che parla direttamente ai lettori come fa per esempio Manzoni quando tira in ballo i suoi venticinque lettori. Quando poi mi sono accorto che il libro era davvero grande, ho incentivato questo espediente – che avevo usato inizialmente in maniera meno programmatica – ripetendolo più volte. Lo considero una sorta di indice per orientarsi nel mare magnum zibaldonesco o enciclopedico del libro: avevo infatti pensato a inserire delle piccole descrizioni del contenuto dei vari capitoli. Inoltre, è anche un modo per suggerire una modalità di lettura: non considero uno scacco la lettura parziale del mio libro”.
Peraltro, un narratore che parla in prima persona, si chiama Edoardo Albinati, ha la tua stessa età e ha fatto i tuoi stessi studi…
“Sì, e tuttavia non sono esattamente io. In libri precedenti a questo ho enfatizzato l’aspetto autobiografico parlando di fatti realmente accadutimi, mentre per il narratore de La scuola cattolica si tratta di una coincidenza biografica a cui mi hanno spinto la materia e la forma del libro. In realtà, più della metà dei fatti narrati non sono memoriali e spesso ciò che era vero l’ho romanzato. Senza contare che, pur riferendosi anche direttamente a me, i fatti risalgono comunque a quarant’anni fa, e non potevo ricordare tutto con precisione assoluta. A mio parere, l’immaginazione amplifica la parte memoriale: come in tutte le confessioni, soprattutto quelle letterarie, si tratta di una forma parzialmente inventata”.
È però vero che il narratore aggiunge al racconto dei fatti analisi e giudizi che difficilmente potremmo non considerare autoriali.
“A dire la verità, piuttosto che giudizi li definirei ragionamenti. In ogni caso, non volevo fare della morale: le risposte che ho ricevuto dagli stessi lettori, che li hanno intesi in modo diverso, dimostrano che il loro carattere non è univoco. Più che altro, me ne sono servito per passare tra diversi piani narrativi, soprattutto per gli argomenti maggiormente legati al cattolicesimo. Per esempio, il cattolicesimo si distingue, nel libro, sotto i tre aspetti – tra loro diversi – di religione, fede e preti. E il mio narratore ragiona di questi tre aspetti, come di molti altri, servendosi delle mie idee ma anche di una infinita quantità di materiale non mio (come le parti dedicate al neofascismo, al femminismo, alla borghesia dimostrano ampiamente)”.
Il Massacro del Circeo del 1975 è uno dei poli di attrazione principali della tua storia: come mai però ne parli solo dopo 400 pagine?

“La posizione in cui tale evento viene a trovarsi coincide con il centro esatto del libro, costituendone così il nucleo. Un nucleo da raggiungere, come dici, dopo 400 pagine, nelle quali era necessario per me fornire un contesto ben specifico. Non ho aperto il libro con questa vicenda perché non volevo trattare di questo: del Massacro scrissi sinteticamente in Orti di guerra, dichiarandolo concluso per quanto mi riguardava, da un punto di vista letterario. Una posizione poi riaperta dal secondo delitto compiuto da Izzo, che mi ha spinto – nei primi 6-7 anni di scrittura – a sperimentare diverse forme per raccontare ciò che sta intorno al Massacro. Mi sono sentito chiamato a farlo perché mi ritengo l’unico con le adeguate competenze in quanto scrittore e individuo parzialmente coinvolto nei fatti: o lo facevo io, mi sono detto, o non lo poteva fare nessun altro”.
Durante gli anni al San Leone Magno, vi veniva imposto uno specifico modello maschile, che nel libro prende le fisionomie di figure differenti: abbiamo, per esempio, dei preti che educano dei ragazzini a diventare padri di famiglia.
“Sì, nel mio libro ho scelto di analizzare uno specifico sottoinsieme della società italiana degli anni ’70: la mia scuola, che all’epoca era solo maschile, e l’essenza borghese delle famiglie, che circondava la scuola e ne nutriva i presupposti educativi, dai quali era a sua volta rinvigorita perpetuandosi. Per quanto riguarda i preti, furono effettivamente per noi un modello contraddittorio: nel libro sottolineo che ci educavano alla virilità escludendo le figure femminili, alimentando così ciò che giudicavano poco virile, come per esempio l’omosessualità”.
Inoltre, si delinea un contrasto tra un maschio attivo (gli assassini) e uno passivo (lo scrittore che registra e spiega i fatti): è così?
“In generale sì, ci veniva imposto un modello di vero maschio come uomo attivo, con il rischio che tale attivismo strabordasse in atti di violenza come forma di imposizione della propria volontà su quella altrui. Proprio per questo la violenza era tanto gratuitamente eccessiva, nelle manifestazioni extraparlamentari di piazza così come durante il Massacro. Tuttavia, la posizione del narratore di questo libro – e dello scrittore in generale – è passiva perché deve registrare i fatti che narra: per lo scrittore, osservare è una forma di mimetismo, significa lasciarsi invadere dai fatti. Una posizione moralmente discutibile, ma di sicuro proficua”.
Mentre, sul versante educativo, sembra di percepire il rimpianto per non essere stati sottoposti a un’autorità forte, fondamentale negli anni di sviluppo fisico e psicologico dell’adolescenza. Il narratore sottolinea spesso un certo lassismo da parte della scuola e della famiglia: né i padri, né i preti, né i fratelli, né i professori volevano più esercitare una tale autorità in quegli anni a ridosso del ’68.
“Più che un rimpianto si tratta questa volta di un giudizio: paradossalmente, una delle concause del delitto del 1975 fu anche l’eccessiva liberalità di cui godettero i suoi esecutori perché, a discapito delle apparenze, la nostra scuola era progressista e aperta. Io personalmente non rimpiango di non avere ricevuto un’educazione rigida, ma per altri era forse la soluzione adatta: quando si cercò di porre rimedio a tale negligenza era ormai troppo tardi e il delitto aveva contaminato il tessuto umano e sociale del quartiere e della città”.
Leggendo il libro, due passaggi mi hanno colpito: in una il narratore si chiede che senso abbia il libro (p. 253), aggiungendo che non è in grado di rispondere a molte domande (p. 274). Qual è quindi il senso di queste 1.294 pagine?
“Credo che il senso del libro non sia nella scoperta di nuovi territori ma nell’attraversamento di tempi e spazi, che è, o dovrebbe essere, il senso della narrativa in generale: raramente i romanzi ci danno altro, e la lettura stessa è una forma di attività immobile o di passività proficua. Che poi, nel mio caso, sia benefica o artisticamente valida, non sono onestamente in grado di stabilirlo: la hybris delle dimensioni – anche in risposta alla pochezza di certa letteratura – mi rende difficile valutare La scuola cattolica come oggetto letterario, ma difendo a spada tratta l’importanza del suo contenuto”.
Un’importanza riconosciuta anche dai 143 voti con cui gli Amici della Domenica lo hanno decretato vincitore del Premio Strega.
“Si è trattato di un evento meraviglioso, che ho vissuto attraverso l’entusiasmo del mio editore, dei miei amici, della mia compagna e che ho voluto dedicare al poeta Valentino Zeichen”.