Domenica 8 gennaio, nell’intima cornice de (Le) Poisson Rouge di New York, i Blonde Redhead hanno tenuto un doppio concerto, in formazione estesa, supportati dall’American Contemporary Music Ensemble (ACME), in cui hanno eseguito per intero il loro storico album Misery is a Butterfly, più alcuni pezzi selezionati della propria discografia. E’ stato il debutto assoluto in questo nuovo assetto.
I Blonde Redhead si sono formati a New York nel 1993, sono un gruppo indie rock composto dalla giapponese Kazu Makino (voce, tastiera e chitarra elettrica), dai gemelli italiani Amedeo (voce, chitarra e talvolta basso) e Simone Pace (batteria).
Amedeo e Simone Pace sono nati in Italia, a Milano, ma sono cresciuti in Canada prima di trasferirsi negli States, a Boston, dove hanno iniziato la carriera musicale studiando jazz. Il loro percorso artistico poi li ha portati a suonare negli ambienti newyorkesi, dove, nel 1993, conoscono la cantante giapponese Kazu Makino e formano così i Blonde Redhead.
Dopo diversi album, nel 2000, il gruppo raggiunge il successo grazie alla pubblicazione di Melody of Certain Damaged Lemons, lavoro che li porterà, nei mesi seguenti, ad accompagnare in tour gruppi come Red Hot Chili Peppers e Foo Fighters.
Popolarità che coincide con la loro svolta musicale verso lo shoegaze e il dream pop, dopo aver abbandonato le lande del noise rock, alla ricerca di uno stile più personale, riconoscibile ed efficace. Arriviamo così, quattro anni più tardi (2004), alla definitiva consacrazione con Misery is a Butterfly (anche questo, come il precedente, prodotto da Guy Picciotto dei leggendari Fugazi) il primo album pubblicato su 4AD, quello che segna un decisivo e definitivo cambiamento di rotta e allarga gli orizzonti musicali della band.

Raggiunta Lower Manhattan perdo l’utilizzo del mio smartphone causa congelamento, così dopo aver girato in tondo per un po’ riesco a trovare il locale su Bleecker street, per mia fortuna il secondo show tarda ad iniziare, e ho addirittura il tempo di riscaldarmi accucciato sui divani del bar (in sala c’era l’aria condizionata sparata così forte che sembrava di stare ancora fuori) e dissetarmi con una succosa india pale ale del Maine.
Ma la band non si fa attendere troppo, i gemelli Pace si presentano entrambi in camicia bianca, Kazu in tutina nera sgambata, accompagnati sotto le algide wood rosse e viola da un quartetto d’archi dell’American Contemporary Music Ensemble, “Tornare indietro nel tempo, per un musicista, non è mai facile. Noi poi ci troviamo proprio in un periodo in cui abbiamo voglia di scrivere, pensare e sperimentare cose nuove. Però era da un sacco che discutevamo tra noi di questa idea: portare dal vivo la versione completa di questo disco, quindi con gli archi e tutto, anche se per tutta una serie di ragioni non eravamo mai riusciti a farlo”, ha detto Amedeo Pace a Rolling Stone Italia.
Le trame dei brani come dicevamo sono quindi (dream) pop-rock (shoegaze), semplici e al tempo stesso complicate, ricche di storie surreali e caduche emozioni. Sensazioni che si evincono dalle prime note dell’iniziale Elephant Woman, caratterizzata dalle soavi orchestrazioni d’archi dell’ACME e da un motivo sottile e laconico. Melodie di tale struggente bellezza sono onnipresenti in tutto l’album e quindi in tutto il concerto. Falling Man e Melody scorrono via una dietro l’altra come un treno che non ha stazioni a cui fermare. Eterea ed angosciosa Makino, nervoso e più pieno Amedeo, seppure anche lui con timbro quasi femminile, si alternano alla guida delle litanie.
Quest’ultimo, dopo aver provato a confondere l’inizio di un pezzo, s’impappina per ben due volte su Doll Is Mine, si scusa per la stanchezza, dato che siamo al secondo concerto, e propone di ripeterla magari più in là nella scaletta, ne scaturisce un simpatico siparietto con Kazu che trova il modo di dissimulare con grazia e educazione orientale, e qualcuno dal pubblico che offre una chewing gum ad Amedeo.

Misery, Messenger, Anticipation, Magic Mountain, la serata scivola via veloce densa di emozioni dilatate e tocchi di classe, passando per un paio di pezzi tratti dall’ultimo Barragán (2014), qualche rimprovero a me che filmavo video e scattavo foto, fino ad arrivare al bis che chiudono con l’energica ed anche un po’ smithsiana Equus (la mia preferita), dove i tre si ripresentano soli sul palco, in formazione intima e originale, a far agitare un pubblico ormai in adorante visibilio.
Non c’era nulla da dimostrare, in sala si respirava un’atmosfera serena e senza pretese, quasi da concerto da camera. New York ha accolto i Blonde Redhead (che da febbraio saranno in tour in Europa) in un abbraccio caldo, tipico di quei genitori orgogliosi che rivedendo i figli dopo troppo tempo, non vedono l’ora di farsi raccontare le loro imprese migliori. Infondo New York è casa loro e fuori faceva tanto freddo.