Francis Ford Coppola aveva 29 anni quando girò The Godfather (Il Padrino). Accettò il lavoro (dopo che Sergio Leone, Arthur Penn ed Elia Kazan l’avevano rifiutato) per riuscire a pagare le bollette: aveva due figli e un terzo in arrivo e non aveva un soldo. Il romanzo di Mario Puzo, da cui il film è tratto, non lo entusiasmava, anzi, dopo una prima lettura era deciso a non farlo, era un libro troppo commerciale: dove si aspettava una seria riflessione sul potere trovò invece pagine e pagine di inutili storie d’amore. Ma a una seconda lettura (e vista l’opportunità che gli studios gli offrivano) capì che c’erano alcuni aspetti interessanti della storia, dei personaggi e delle relazioni fra loro, di quell’analisi del potere mafioso che gli stava a cuore approfondire e raccontare.
In una bella intervista al programma Fresh Air della stazione radio WNYC-NPR, il 16 novembre 2016, Coppola racconta com’è nato The Godfather, e in particolare come ha lavorato al suo prompt book, una sorta di road map composta di vari livelli che gli è stata fondamentale per scrivere e girare il film e che è stata da poco pubblicata negli Stati Uniti da Regan Arts con il titolo The Godfather Notebook.
Alla seconda lettura del romanzo di Puzo, il regista cominciò ad annotare pensieri, dubbi, idee, e decise quindi di creare un prompt book, com’era in uso nel teatro, un librone di quelli ad anelli composto delle pagine del romanzo ritagliate e incollate su fogli di cartoncino (più resistenti dei semplici fogli di carta) più larghi in modo che ci fosse spazio ai lati per le annotazioni ma che permetteva anche di inserire disegni, fotografie e tutte le pagine necessarie per scrivere i cinque criteri di annotazione e analisi che Coppola riteneva essenziali per ogni scena da girare: synopsis, times, imaginary and tone, the core e pitfalls. Se sinossi, tempi in cui la scena è ambientata, immaginario e tono sono termini e concetti consueti nella scrittura della sceneggiatura e nella successiva messa in scena, gli ultimi due punti sono forse i più importanti. The core (concetto chiave rubato, per stessa ammissione di Coppola, ad Elia Kazan) è il cuore, l’essenza, il senso profondo della scena, mentre i pitfalls sono le cadute, i possibili errori da evitare, i pericoli in agguato dietro l’angolo a livello di racconto, messa in scena, recitazione, direzione, fotografia, scenografia, tutto. Tra i pitfalls il pericolo maggiore per Coppola sono i cliché, facili proprio nella rappresentazione degli italoamericani.
Coppola, nato e cresciuto in una famiglia italoamericana, da nonni paterni e materni emigrati dalla Lucania e dalla Campania, racconta di quanto fosse importante per lui che i personaggi e le situazioni fossero credibili, soprattutto quelle familiari. Gli italoamericani di New York non parlavano americano con accento italiano (errore comune nel cinema secondo il regista e motivo di grandi scontri con la produzione) ma con uno specifico accento di Brooklyn, e nelle cucine e nelle sale da pranzo del Padrino si cucina e si mangia come si cucinava e si mangiava nelle famiglie italoamericane, E se ai gangster Coppola non si poteva relazionare in maniera diretta perché, come Puzo, fortunatamente non li conosceva, a quel lato familiare che pure molti gangster avevano sì. Allora ecco che Peter Clemenza prepara il sugo, “come faceva uno dei miei zii, tutti hanno avuto un zio così”, racconta Coppola, ed è questo l’elemento di verità che rende il Padrino unico. Per il lato gangster e tutta la violenza che gli appartiene, l’ispirazione di Coppola, come annota anche nel libro, è principalmente il cinema di Arthur Penn.
Naturalmente poi l’accuratezza nella scrittura, nei dialoghi, nelle scenografie e nei costumi, la scelta del cast e le scelte di regia hanno reso The Godfather il grandissimo film che è, e leggendo il Notebook di Coppola ne seguiamo la genesi, capiamo le ragioni di alcune scelte e l’importanza di altre, vediamo le difficoltà della realizzazione di alcune scene, seguiamo i pensieri, i ragionamenti e anche l’immaginazione del regista nel creare il suo film, prima ancora dell’effettiva scrittura della sceneggiatura che, una volta finito il prompt book, Coppola dice essere stata una cosa semplice perché c’era già tutto in quel librone. Come racconta lui stesso, aveva lavorato al prompt book per lungo tempo, seduto a un tavolino del Caffè Trieste a North Beach, quartiere italiano di San Francisco, immerso in quelle che erano le sue origini e nella vita e nel viavai di quel piccolo caffè, dove si incontravano artisti, studenti, operai. E infatti in quel caffè all’angolo della strada, rimasto pressoché intatto dagli anni Cinquanta, appesa al muro c’è una foto di Coppola al lavoro, e qualche anno fa Gianni Giotta, fondatore di quel caffè e immigrato in America come tanti nel dopoguerra, lo ricordava appunto intento a scrivere il suo Padrino (nel documentario Caffè Trieste, al minuto 18.49).
The Godfather venne girato in buona parte in studio a Los Angeles, ma anche in Sicilia (altra ragione di scontro con gli studios) mentre solo alcune scene vennero girate a Little Italy, a New York; sarebbe passato ancora qualche anno prima che il New American Cinema, capitanato da Scorsese, cominciasse a girare per le strade di New York.

Coppola scelse Marlon Brando a dispetto della Paramount, che voleva invece Lawrence Olivier o James Cagney o qualcun altro al posto dell’ingestibile Brando, reduce tra l’altro dal flop di Queimada. Il regista dovette accettare mille condizioni imposte dai produttori, ma Brando era forse il più grande attore del momento e un uomo molto intelligente, come ricorda Coppola in molte occasioni: capì il film, capì la situazione, entrò immediatamente nel personaggio e lo fece suo. E al posto di Robert Redford, Dustin Hoffman o James Caan voluti dalla Paramount scelse lo sconosciuto Al Pacino per interpretare Michael Corleone, facendogli pronunciare una battuta entrata poi (come altre) nel lessico comune: “My father made him an offer he couldn’t refuse…”, dice Michael a Kay nella scena del matrimonio.
Coppola scrisse il film con Mario Puzo, attraverso lunghe chiacchierate e lo scambio di fax e telefonate, e all’interno del fine squisitamente commerciale di tutta l’operazione riuscì a realizzare il film che voleva, seppure in una continua lotta con la produzione. Anche Puzo, autore precedentemente del bellissimo The Fortunate Pilgrim, scrisse The Godfather per pagare le bollette e, come ricorda Coppola, gli raccomandò sempre di raccontare sempre realisticamente i gangster mafiosi ma di non averci mai a che fare, di non incontrarli nemmeno, e il regista così fece. Dopo l’uscita del film, John Gotti andò a trovare Coppola, che non lo ricevette con la scusa che purtroppo era molto impegnato, e Gotti semplicemente se ne andò. “Avevo sempre immaginato i mafiosi fossero come dei vampiri, quindi avevo pensato che se non li inviti a entrare, quelli non entrano”, raccontava ridendo in una video intervista a Hollywood Reporter qualche anno fa. E così è stato.
Tornando al Padrino, se vogliamo individuare il core del film, è una riflessione sul potere mafioso, ma per Coppola, come racconta in diverse occasioni, la parola chiave è “successione”, è di questo che parla il film. Successione all’interno della famiglia, successione nella scala del potere, successione come senso ultimo della vita.
Nel 1973 The Godfather vinse l’Oscar come miglior film, poi diventò una saga, e diventò al tempo stesso modello da imitare e cattivo esempio da evitare, a seconda della platea e dell’interlocutore. Quasi quarantacinque anni dopo, e dopo gli arresti dei vari Gotti, Genovese e di tutta la Cosa Nostra newyorchese, ancora si accusa Coppola di aver gettato cattiva luce sugli italoamericani, ancora non ci sono lezioni universitarie o panel sugli italomericani in cui non venga scomodato Coppola per essere citato come pessimo esempio con il suo Padrino. Penso possa essere utile, oltre che interessante, andare ad ascoltarsi le sue interviste, leggere il suo Notebook, e riguardarsi con attenzione il suo film per capire che non c’è nulla di più lontano, nelle intenzioni del regista e nell’essenza di un film che, piaccia o meno, è uno dei capolavori della storia del cinema.