Ogni festival ha un suo film-copertina, un titolo che – al di là di premi e e riconoscimenti – può racchiudere le linee tematiche e gli spunti che emergono durante quel determinato evento. Il festival di Cannes dello scorso anno, ad esempio, era stato segnato dal lancio trionfale del capolavoro di George Miller – quest’anno presidente di giuria – Mad Max Fury Road, che aveva perfettamente inquadrato un festival cupo e nichilista.
La kermesse di quest’anno sembra invece indicare che il cinema, termometro dell’immaginario del mondo, sente complessivamente l’urgenza di riflettere su due grandi temi, variamente declinati: la dissoluzione progressiva della fiducia nelle grandi autorità simboliche (famiglia, stato, chiesa) e il principio di “controllo” che segna i nostri tempi, sia il controllo eterodiretto sia quello autoimposto. Avremo modo di approfondire questi temi nelle nostre prossime corrispondenze dalla Croisette, tuttavia, in questo scenario, un film che può autorevolmente candidarsi ad occupare la copertina di Cannes 69 è The BFG – The Big Friendly Giant di Steven Spielberg. Il grande regista americano, infatti, scrive un’ideale prefazione al “libro” di questa edizione del festival più importante del mondo, spostando la riflessione su quale sia il ruolo che il cinema può ambire ad occupare nello scenario che i vari film in concorso e non stanno delineando.
Questa riflessione è, siamo convinti, anche il motivo che ha spinto Spielberg a realizzare, oggi, una versione cinematografica del noto romanzo per bambini di Roald Dahl, già portato sul grande schermo nel 1989 (Il mio amico gigante, in Italia, diretto e ideato da Brian Cosgrove), un’operazione alla quale, ad Hollywood, si lavora da metà anni Novanta (e che – nota malinconica – pare avrebbe dovuto avere Robin Williams nella parte del gigante).
L’apparato simbolico del romanzo di Dahl è in effetti troppo ghiotto perché il regista di E.T. non se ne appropri. La vicenda, in cui accade pochissimo, è questa: a Londra, in un’epoca imprecisata che è un po’ vittoriana e un po’ i “nostri” anni Ottanta, una bambina, Sophie, vive in un orfanotrofio. Ha il piglio deciso e risoluto di chi ha dovuto fare i conti troppo presto con la responsabilità di se stessa. Questa stessa responsabilità, di fatto, non la fa dormire: così, una notte, un gigante (interpretato, in motion capture, da Mark Rylance) la rapisce e la porta in una landa lontana. Sophie teme di essere mangiata, ma il suo rapitore è un gigante, come da titolo, gentile, che mangia solo Cetriolonzi e che di professione confeziona sogni che possano allietare i sonni profondi della gente. Attenzione, però, agli altri giganti, che invece sono tutt’altro che vegetariani e che ne hanno abbastanza del loro stravagante collega.
Impossibile non andare immediatamente a definire una proporzione molto netta: il “grande gigante gentile” è, semplicemente, Spielberg stesso, mentre i sogni che egli confeziona rappresentano ovviamente il cinema. In primo luogo, quindi, il BFG e il regista hanno uno sguardo che si assomiglia molto: sognante e stupito, amano veder crescere il sogno e l’immaginario, ostentano l’ingenuità, si prefigurano, con un narcisismo totalmente ingenuo, riflessi nello sguardo appagato dell’altro. In seconda battuta, i sogni (qui rappresentati in modo stupefacente come delle strisce luminose colorate messe in ampolla dallo scrupoloso gigante e colti, come frutti, da un albero magico che cresce in un sottomondo alla rovescia) vengono raccontati e talvolta proiettati come ombre sui muri, come, appunto, immagini sagomate da un fascio luminoso. Credere nel cinema, sempre e comunque, e alla sua potenza immaginifica: non è male come biglietto da visita di un festival cinematografico.
Però attenzione, sarebbe riduttivo dire che l’idea di Spielberg sia solo quella di un cinema che intrattiene e distrae. Il suo gigante, ben più che nel romanzo di Roald Dahl, compie un’evoluzione precisa, in un bildungsroman in cui si spinge fino ad una presa di posizione netta e decisa, fino a dire chiaramente, in faccia ai suo colleghi cannibali, che è “sbagliato” mangiare gli umani. Quello che Spielberg auspica, in uno scenario di disorientamento e di imbarbarimento che il suo film coglie perfettamente, è quindi un cinema che possa prendere posizione e affermarla con coraggio, senza mai dimenticare di essere anche e soprattutto una fabbrica di sogni.
In questa dichiarazione d’amore nella forza del cinema, ritroviamo anche dei rimandi molto forti di Spielberg al suo stesso cinema precedente. In primo luogo E.T., sia per alcune sequenze, sia per lo spunto narrativo di fondo, quello dell’outsider (Sophie in questo caso, Elliot nel film di fantascienza del 1982) che si riscatta grazie all’incontro decisivo con l’Altro. Ma poi anche Hook e molti altri testi del regista americano trovano spazio per omaggi o citazioni.
A ciò si aggiunga la superba confezione e la forza visiva eccezionale, per comprendere come il “ritorno “ di Spielberg alla fiaba sia un dei film più riusciti tra gli esiti recenti del regista americano.
Conservate questa recensione: The BFG arriverà nelle sale americane solo il 22 luglio, mentre in Italia dovremo aspettare addirittura fino al 1° gennaio 2017.
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