Fra le molte informazioni confuse e controverse intorno alla vita di Shakespeare, anche la data di nascita è un fatto incerto. La maggior parte delle ipotesi la collocano comunque il 23 aprile, in coincidenza con quella di morte, di cui quest’anno ricorre il quadricentenario. Se in tutto il mondo pullulano le iniziative per celebrare l’evento, è dal Globe Theater di Londra che ci si aspettano grandi cose. E il London Shakespeare’s Globe non delude.
Direttore artistico del teatro shakespeariano per eccellenza dal 2006, Dominic Dromgoole sta per passare il testimone ad Emma Rice, che gli succederà nella carica, ma prima di andarsene ha deciso di lasciare un segno con due progetti eclatanti immaginati proprio per questo importante anniversario.
Anzi tre, perché alla vigilia del suo saluto sta anche per pubblicare il libro che racconta l’avventura degli ultimi due anni, il suo Hamlet globe to Globe. È questo il primo ambizioso progetto che in due anni (23 aprile 2014 – 23 aprile 2016) ha portato un Amleto su scala ridotto in tutti i paesi del mondo. Anzi, scusate, “solo” in 196 paesi. Una scenografia immaginata da Jonathan Fensom per essere interamente smontata e stipata in 8 bauli, una regia (Dominic Dromgoole e Bill Buckhurst) che risponde ad una assoluta flessibilità e un cast di avventurosi attori che si sono industriati a recitare nei posti più disparati, inclusi il ciglio di una strada in Cameroun, un campo di rifugiati siriani in Giordania, il palazzo dell’ONU a New York e davanti ad un centinaio di alti prelati in territorio Vaticano (Palazzo della Cancelleria, a Roma).
“Uno straordinario gruppo di persone, che ha compiuto un viaggio straordinario”, così ha definito Dromgoole, la compagnia di attori che, intercettando ogni sorta di audience, ha contribuito a realizzare l’idea grandiosa, affascinante e un po’ folle, diciamolo, che chiude un percorso gestionale preciso, mirato all’espansione e all’internazionalità.
È questa infatti l’ultima di una lunga serie di regie shakespeariane firmate proprio per il Globe, che sotto la sua direzione artistica ha iniziato a viaggiare, portando in tour i propri spettacoli e relazionandosi con il resto del mondo. Prima Dromgoole era stato direttore artistico di altri teatri e compagnie ed era già autore di un paio di libri, l’ultimo dei quali (2001) porta l’allusivo nome di Will and Me.
Lo abbiamo intervistato in occasione del suo breve soggiorno romano per girare tre cortometraggi che andranno a formare la Complete Walk (un altro dei progetti per le celebrazioni del quadricentenario), il percorso allestito a South Bank il 23 e 24 aprile: 37 schermi su cui verranno proiettati, in loop per 24 ore, altrettanti corti ispirati alle opere di Shakespeare. A Roma sono state filmante alcune scene dei drammi classici: Giulio Cesare, idealmente nell’area di Torre Argentina, dove di recente è stato individuata una lapide commemorativa, ma in realtà a Villa dei Quintili, nel Parco archeologico della Via Appia, Tito Andronico e Coriolano alle rovine di Ostia Antica. Il regista ci ha raccontato l’intento di questa ultima avventura e il rapporto del Globe con il mondo.
Come mai voi che abitate nel mondo di Shakespeare e nel teatro da lui creato avete scelto di girare nei luoghi in cui sono ambientate le sue opere?
“Per una questione di immaginazione. Ci siamo chiesti come un giovane autore immagina i diversi mondi di cui racconta Parigi, Roma, Verona, Vienna… senza esserci mai stato. Aveva visto pitture o stampe, copertine di libri, ma non li aveva visitati. Cerchiamo di guardare i luoghi che lui ha evocato per capire in che modo la sua creatività combacia con la verità, se si è avvicinato molto, o magari no. Giochiamo con fantasia e realtà filmando anche delle messe in scena, perché ciò che avviene sul palco è parte importante del processo d’immaginazione. Ma non si tratta di un’indagine geografica, non stiamo catalogando i luoghi descritti da Shakespeare, li stiamo osservando con il filtro della fantasia, mostrando in che modo il sogno aderisce alla realtà”.
Qual è stato il vostro rapporto, anche emotivo, in questo gioco fra realtà e fantasia?
“Abbiamo giocato molto liberamente con gli anacronismi, ad esempio con Timone di Atene abbiamo filmato davanti all’Acropoli, mentre Timone parla della città e del suo disprezzo per essa, creando una dinamica fra il testo e il luogo in cui Shakespeare ha immaginato di collocare il suo personaggio. Poi abbiamo girato la telecamera mostrando la città moderna al di sotto della collina: poiché il dramma parla di denaro e degli effetti negativi del capitalismo, è ovviamente affascinante il riferimento alla città odierna. Ma non c’è nulla di definitivo nel film, ci siamo limitati a creare delle dinamiche fra il linguaggio, il paesaggio e la loro interazione. Non diamo risposte, facciamo emergere delle possibilità”.

Può farci qualche esempio specifico nei luoghi che ha visitato in Italia, di questi anacronismi e di questa relazione particolare che avete stabilito con i posti?
“Coriolano è un dramma su un generale romano che detesta il popolo e le persone, che vive molto al di sopra degli altri. In questo caso abbiamo provato vari approcci: siamo stati a Ostia, dove abbiamo trovato il Capitolium, un tempio posto in posizione rialzata, che evoca la potenza del personaggio, per uno dei suoi discorsi, tenuto in abiti senza tempo. Poi abbiamo girato in macchina di notte per Roma, filmando Coriolano che osserva le rovine e la città odierna, come se fosse in un taxi. È un personaggio scontento, vive al di fuori del mondo, si tiene a distanza dalla gente, così lo abbiamo mostrato anche al computer, mentre naviga di notte su internet, come molte persone oggi, arrabbiate col mondo, che passano le nottate a condurre proteste e discussioni online. Abbiamo quindi messo insieme il linguaggio di Shakespeare, la Roma antica, la città moderna, che è di per sé composta da una serie di stratificazioni materiali e temporali. Abbiamo sempre giocato con momenti temporali diversi. La tomba di Giulietta a Verona, è del XIII secolo, come sapete la storia era già famosa prima che Shakespeare scrivesse la tragedia, mentre lui la ambienta nella sua epoca. Avevamo due attori in costumi moderni, che coesistevano in un luogo medioevale per una storia cinquecentesca. Shakespeare gioca liberamente con gli anacronismi, li celebra, colloca ad esempio pistole in epoche precedenti all’invenzione delle armi, non si cura di questi dettagli. Noi siamo altrettanto liberi”.
Come hanno risposto gli attori nel trovarsi a recitare all’aperto, in posti tanto specifici ed evocativi?
“Credo si siano sentiti ispirati. Abbiamo coinvolto attori televisivi di grande esperienza, abituati a lavorare con la telecamera, non abbiamo utilizzato una recitazione teatrale. Sicuramente hanno apprezzato set suggestivi, che hanno conferito sostanza al film. Siamo stati a Troia per Troilo e Cressida e certo tenere il discorso sul tempo e i suoi effetti distruttivi davanti alle rovine della città ha reso gli attori più consapevoli del significato di quanto dovevano recitare”.

Avete scoperto qualcosa di nuovo nei testi di Shakespeare, in questa operazione, e pensa che il pubblico scoprirà qualcosa di nuovo vedendo i film?
“Credo e spero di si. Qualcosa di semplice, non abbiamo risposto ad indovinelli ma posto domande, abbiamo usato l’immaginazione in modo provocatorio, per portare le persone a riflettere sui luoghi e su quello che significano. Se sia possibile raccontare una storia su Roma solo stando a Roma, se ciò sia importante, se Roma abbia di per sé una sua magia e se questa si possa solamente sperimentare recandosi qui o se la si possa vivere attraverso un film o con l’immaginazione. Credo che la domanda importante nel nostro mondo virtuale sia cosa c’è di particolare nei luoghi, cosa si trova di diverso visitandoli fisicamente. Personalmente credo che i luoghi fisici siano fondamentali, è folle pensare di poter immaginare Roma senza recarsi a Roma. Ecco, questa è una delle domande che si pone il film”.
In Italia c’è un dibattito molto acceso su come si possa mettere in scena Shakespeare oggi. Qual è la risposta del Globe a questa domanda?
“Noi produciamo anche opere contemporanee di nuovi autori accanto ai lavori shakespeariani ed è molto importante per noi che ci sia una dinamica fra Shakespeare e il nuovo. Ma non si può considerare Shakespeare antico, Shakespeare è sempre avanti, immagina nuovi futuri, mondi moderni, nuovi modi di relazionarsi fra persone. Si affrontano le sue opere per mettere in atto i cambiamenti, mai per mantenere le cose al loro posto. Le si mettono in scena per rendere le persone più coscienti, per responsabilizzarle, per stimolarle ad essere più coraggiose, a prendersi cura del mondo e a cambiarlo. Shakespeare non è una forza statica, ma energia inarrestabile, che spinge in avanti, verso il nuovo”.
Come avete lavorato in questi dieci anni in un luogo particolare come il Globe, ma anche in una città che ha molti teatri che propongono le opere di Shakespeare?

“Il luogo è davvero unico e assolutamente diverso, non abbiamo molto in comune con gli altri teatri londinesi. Abbiamo una nostra felice storia personale, uno stretto legame con il territorio, siamo un teatro londinese, un teatro nazionale, ma siamo anche diventati un teatro internazionale, invitando compagnie da tutto il mondo e andando in tournée in tutto il mondo. Abbiamo una produzione, Amleto, che sta andando in tutti i paesi possibili. Stiamo tentando di ridefinire e modificare le nostre responsabilità teatrali all’interno di questa relazione, non limitandoci a parlare al nostro piccolo mondo, ma provando a raggiungere altri luoghi, diverse culture e diversi modi di interpretare queste e altre opere. Stiamo cercando di divenire genuinamente internazionali, quindi non ci preoccupiamo troppo di Londra. Certo, riteniamo molto importante avere solide relazioni con il territorio, abbiamo un fantastico programma di formazione per ragazzi, manteniamo rapporti con la zona”.
Ci racconta l’esperienza di questo Amleto, soprattutto rispetto ai campi profughi e alle zone di guerra?
“Il tour è iniziato il 23 aprile del 2015 e termina il 23 aprile del 2016, giorno della data di nascita e di morte di Shakespeare. Per allora saremo stati in 194 paesi, con una stessa produzione, le stesse 16 persone (12 attori, 4 stage manager), sto scrivendo un libro su questa esperienza. Ci sono tante storie diverse che raccontato i posti meravigliosi dove siamo stati, è difficile metterle tutte insieme, lo abbiamo fatto per riflettere sull’Amleto e su Shakespeare, ma anche provocatoriamente, perché altri facciano lo stesso. Spero che le relazioni che abbiamo creato fra le persone e l’idea di costruire un tour con queste modalità vengano ripresi. Siamo anche stai in quattro campi profughi, laddove non potevamo entrare nel paese perché troppo pericoloso. Ad esempio in Siria siamo stati a Zaatari, il campo profughi nel nord della Giordania. Siamo stati allo Jungle a Calais, che ora stanno smantellando, a Djibouti fra i profughi yemeniti e fra i rifugiati del Cameroun”.
La reazione del pubblico è stata molto diversa nelle diverse culture?
“Immensamente diverse! Alcune persone si sono sovreccitate, reazioni esuberanti, atmosfere da festa, carnevale, ma anche gente buttata per terra, annoiata, infastidita dal trovarsi troppo vicino gli uni agli altri, curiosi… abbiamo avuto ogni tipo di risposta possibile”.
Torniamo al suo ultimo libro, Will and me: chi è Will per lei?
“William Shakespeare. È tutto, come l’aria che respiriamo. Il libro parla della mia relazione con la sua figura. Se si cresce in un paese che non ha una forte vita religiosa, senza interessi politici, si ha bisogno di qualcosa con cui scontrarsi, da rinnegare, con cui discutere per definire chi tu sia. Nei paesi religiosi la relazione con la Chiesa è uno dei modi per definire il carattere. Shakespeare è stato questo per me: una grande istituzione di pensieri, idee, storie con cui potersi relazionare, con cui entrare in contrasto, di cui innamorarsi, da odiare, che hanno aiutato a formare la mia personalità”.