Le acque incontaminate dei fiumi e dei torrenti in Alaska si stanno tingendo di arancione a causa dello scioglimento del permafrost, rivela una nuova ricerca presentata il 20 maggio sulla rivista Communications Earth & Environment.
Per l’esattezza, dalla dissoluzione graduale del permafrost sono emersi i vari minerali metallici che vi erano immagazzinati e che, a contatto con i corsi d’acqua, hanno rilasciato sostanze acide. Da qui, la caratteristica tinta che vira alla ruggine.
La scoperta è frutto degli studi condotti dai ricercatori del National Park Service, di U.S. Geological Survey, dell’Università della California, di UC Davis e di altre istituzioni che hanno collaborato al fine di documentare numerosi campioni di acque compromesse dall’alta concentrazione di ferro, zinco, nichel, rame e cadmio.
Jon O’Donnell, ecologista per l’Arctic Inventory and Monitoring Network dell’NPS ed autore della ricerca, non ha potuto che constatare l’insorgenza del problema di persona, quando nel 2018 condusse alcune osservazioni preliminari della zona in pericolo “Più volavamo in giro, più abbiamo iniziato a notare sempre fiumi e torrenti arancioni. Ci sono alcuni siti che sembrano quasi un succo d’arancia lattiginoso. Quei flussi di arancia possono essere problematici sia in termini di tossicità, ma potrebbero anche impedire la migrazione dei pesci nelle aree di riproduzione”.
Con l’ausilio di elicotteri e la complicità dei residenti disposti a rispondere alle domande in merito alla questione, O’Donnell è dunque riuscito a raccogliere svariati campioni che hanno messo in luce una netta trasformazione del pH dei fiumi, con una variazione che passa da un valore medio pari ad 8 a 2,3.
Un problema che, a detta di Brett Poulin, assistente professore di tossicologia ambientale alla UC Davis, si sta espandendo a macchia d’olio “I fiumi macchiati sono così grandi che possiamo vederli dallo spazio”. Osservazione allarmante, già avanzata da O’Donnell, il quale sottolinea che i cambiamenti visibili nel 2018 sono in realtà l’esito di un processo di deterioramento del permafrost iniziato nel lontano 2008 “Il problema si sta lentamente propagando da piccole sorgenti a fiumi più grandi nel tempo. Quando emergono problemi o minacce emergenti, dobbiamo essere in grado di capirli”.
La comprensione, al di là del puro interesse accademico, è una necessità impellente se si considerano le ripercussioni che questo fenomeno ha sulle vite di molte comunità rurali: i corsi d’acqua non solo rappresentano la loro fonte di acqua potabile, ma costituiscono una cospicua fonte di approvvigionamento grazie alla pesca. Il timore degli scienziati si espande infatti alla qualità dell’acqua stessa. A tal proposito O’Donnell garantisce continuità negli studi “penso che ci sarà un lavoro molto più dettagliato da seguire per affrontare alcune delle incertezze che abbiamo attualmente”.
Se da un lato gli accademici si stanno mobilitando per approfondire le problematiche annesse al tema e stanno tendano di offrire valide soluzioni pragmatiche, dall’altro è giusto interrogarsi sulla loro origine. Si parla ora di cambiamento climatico e di riscaldamento globale ma ad entrambi gli esiti non si è giunti per puro caso: uno studio condotto dai democratici e poi presentato da Sheldon Whitehouse, presidente della Commissione Bilancio del Senato e da Jamie Raskin, membro della Commissione di Supervisione della Camera, al Dipartimento della Giustizia ha infatti evidenziato la responsabilità di numerose aziende petrolifere che da oltre 60 anni continuano ad inquinare consapevolmente.
Adesso si insiste per indagare su BP America, Chevron, ExxonMobil e Shell, oltre che su due grandi industriali quali American Petroleum Institute e U.S. Chamber of Commerce, entrambi accusati di “negazionismo e disinformazione” circa l’impatto climatico dei combustibili fossili.