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January 2, 2016
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Renzi: nel 2016 dovrà dirsi e dire la verità sulla questione della Giustizia

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Time: 7 mins read

L’attributo politico più sicuro di Matteo Renzi è sempre e solo stato uno: l’età. Quanto a dire, il fatto di essere così com’è perché nato nel 1975: ragazzino quando cadeva il Muro di Berlino, giovane laureato l’11 Settembre, e astro nascente, inalberando la “rottamazione senza incentivi” della dirigenza democratica, quando la lunga transizione innescata con Tangentopoli volgeva alla fine; e, con essa, vedeva il suo crepuscolo anche la figura più rappresentativa (per valutazione palindroma) di quella transizione: Silvio Berlusconi.

All’insegna di questo pacifico e reale attributo, agli osservatori senza pregiudizio (schiera sempre piuttosto sparuta nel Bel Paese ch’Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe) era sembrato di poter accantonare ogni riserva sulle sue pur vistose carenze; vistose, s’intende, soccorritori del vincitore a parte (altra schiera, invece folta quanto la prima è esigua, com’è noto). E, dunque, assenza di memoria storico-politica: recente, e forse anche meno recente; il just in time come prospettiva; un discorso pubblico (la comunicazione, come dicono gli esperti) più spumeggiante che corposo; e, forse, più cruciverba che discorso.

Basta che li faccia fuori, che sia almeno avviato un reale mutamento di volti, di parole, di idee, di abitudini, il più possibile capillare e deciso, e poi il mestiere si potrà affinare, il passo allungarsi, il disegno definirsi. Così, al momento della conquista della Segreteria del suo Partito e, a stretto giro di posta, di Palazzo Chigi. Sappiamo (o, i più cauti, crediamo di sapere) quanto vale, dicevano quegli occhi cautamente speranzosi, ma sappiamo (crediamo di sapere) quanto valgono coloro che, fin qui, sono stati al timone del centro-sinistra. Insomma, è un figlio di mamma o, secondo alcuni, di buona mamma, però spazzi bene il cortile di casa e saremo di manica larga.

Semplificazioni, certo, ma in politica vale la tendenza.

Vennero nomi nuovi, imbracciando riforme istituzionali significative e una legge elettorale criptopresidenzialista; così il Nostro rendeva necessaria un’azione di legislatura e, al contempo liquidava le critiche sulla sua mancata investitura elettorale; critiche invero non irresistibili: ha avuto la fiducia del Parlamento eletto nel 2013, unica regola costituzionale richiesta, e puntualmente osservata; per soprammercato, vale a dire, in termini di consenso visibile, alle elezioni europee dell’anno dopo il PD ha raggiunto il suo massimo successo storico.

Nel corso dei mesi, però, quelle carenze vistose, anziché dileguare, hanno cominciato a consolidarsi. Nel suo discorso sul voto di fiducia alla Camera (quello del suo insediamento, Febbraio 2014) aveva perentoriamente affermato che “a Giugno” sarebbe venuto il momento di affrontare la questione della Giustizia. La questione su cui quelle catene generazionali più si erano arroccate; la questione che più aveva alimentato, perché la vita pubblica ne rimanesse soggiogata, un fuoco dissolutore e ricattatorio insieme.

Si ha, infatti, un bel parlare di Unione Europea e sovranità monetaria, di Merkel rigida, di Renzi elastico; di immigrazione, di terrorismo; di parametri di finanza pubblica, di uscita dalla crisi economica, di Buona Scuola, di M5S che riempiono (riempivano) le piazze e via così. Questi fatti, meglio, fattori, sembrano il centro, ma sono la periferia della vicenda politica italiana. La questione politica sul “nuovo” e “sul vecchio” è tutta imperniata sull’equilibrio fra i Poteri Legislativo ed Esecutivo, da un lato, e l’Ordine Giudiziario, dall’altro.

E Renzi sembrava avere le idee chiare.

Dopo Tangentopoli, dopo vent’anni di conflitto aperto e dichiarato fra Ordine Giudiziario e Legislativo e, soprattutto, Esecutivo; dopo che dal 1992 in poi è sembrato normale che ogni decisione rilevante della vita politica nazionale venisse a dipendere da questo o da quel provvedimento giudiziario, da questa o da quella campagna propagandistica più o meno pilotata; dopo che, smottamento dopo smottamento, si è fatta abitudine del dileggio alla persona, dell’insinuazione, con quei caratteri di inemendabile stigma che solo la forza giudiziaria può conseguire; dopo che, senza vergogna, si sono a lungo rivendicate impunità e irresponsabilità corporative, di consorteria, spacciandole per autonomia e indipendenza; dopo che, per consolidare col ricatto emotivo quei privilegi, non si è esitato ad appropriarsi della memoria, veramente sacra, dei Martiri della Repubblica, noti e meno noti; insomma, dopo che le ultime due generazioni di italiani altro non avevano conosciuto della vita pubblica e politica italiana che il conflitto, il disordine di competenze e funzioni, un uomo politico che avesse voluto agire all’insegna del coraggio e della rifondazione, avrebbe dovuto porsi al cento del conflitto e chiedere conto, esigere spiegazioni, promuovere nuovi e più equilibrati assetti istituzionali.

Sembrava avere le idee chiare. Le aveva opache, invece.

D’altra parte, per avere una conferma di quanto sostengo, basta riguardare, con la filigrana dell’abuso giudiziario permanente, questi mesi del Governo Renzi, diciamo pure, del momento storico-politico di Matteo Renzi.

Il tempo di prendergli le misure e indagano il padre (Settembre 2014); vicenda tirata per i capelli; chi accusa (il PM) chiede l’archiviazione, chi decide (il G.i.p) dice che bisogna indagare ancora (Ottobre 2015): lo tengono in caldo.

Il Governo aveva subito affermato di voler fare dell’Expo la sua vetrina, per lo meno una delle più brillanti; così, nel maggio 2014, c’era stata una sorta di premiere giudiziaria, sette arresti, prime pagine, (Maggio 2014) che aveva incorniciato e ipotecato la stessa fruibilità dell’Expo; ipotecato, certo: perché il fatto politico di rilevo è stato che una manifestazione di questa portata (146 Paesi rappresentati, 1.1 milioni di mq di superfici in esposizione, oltre 22 milioni di visitatori) si è potuta realizzare grazie ad una “moratoria” concessa dalla Procura della Repubblica di Milano per il 2015; i tortuosi riferimenti del Presidente del Consiglio, alla “sensibilità istituzionale” mostrata da quell’Ufficio, hanno presupposto questo imperscrutabile immorare, ritardare, indugiare; è successo che, per il tempo dell’evento si è deciso, lì dove, evidentemente, si ha il potere (non meno abusivo che effettivo) per farlo, che le legge penale poteva essere sospesa: ad libitum. E’ ovvio che se non ci fossero state ragioni per investigare, o per agire in via cautelare, nessuna sensibilità sarebbe stato necessario incensare. E peggio ancora se si sono ventilate necessità investigative, in realtà, inesistenti, per riscuotere credito grazie ad una “sensibilità” spesa sul nulla (in questo caso, però, resterebbero da capire i clamori d’indagine dell’anno prima).

Quella che era stata la più grande acciaieria d’Europa, l’ILVA di Taranto, in quanto ritenuta gravemente inquinante (“disastro ambientale”, la serena ipotesi di reato formulata) sin dal Luglio 2012 era stata sottoposta a sequestro, su richiesta della locale Procura della Repubblica; il problema, per Renzi, come per gli altri Governi, era di salvaguardare la produzione (circa 6 miliardi di Euro nel 2011) e gli occupati (oltre 15.000 nel 2012) dell’acciaieria, nel frattempo commissariata dal Governo; il problema dei problemi era costituito dai sequestri giudiziari in corso: degli impianti, dei prodotti pronti per la vendita (circa 1 miliardo di valore al tempo della loro produzione), del patrimonio della famiglia Riva, proprietaria dell’ILVA. Il Governo Renzi, nel Febbraio 2015, con un suo decreto-legge si lega al carro della Procura tarantina, e subordina gli interventi pubblici di risanamento strutturale e ambientale, essenzialmente, al coattivo coinvolgimento della famiglia Riva; solo che i loro soldi, 1.2 miliardi di Euro, erano sotto sequestro e, nel Novembre del 2015, il Tribunale di Bellinzona (Svizzera), dove erano depositati, stabilisce che i Riva hanno pieno diritto di lasciare le somme lì dove si trovano, e che le richiesta italiane (giudiziarie, direttamente; governative, indirettamente) sono prive di fondamento. A Taranto, quelli che sono rimasti, non sanno chi o cos’altro aspettare. Complimenti.

I fatti politici interni alla maggioranza di governo sono pressocché esclusivamente legati a vicende giudiziarie: l’Ex Ministro Lupi è tale per un’indagine che ha lambito il figlio; il Presidente della Regione Campania, De Luca, è caso politico permanente per una condanna, in primo grado, fondata su una diversa interpretazione di una figura amministrativa istituita, dall’allora Sindaco di Salerno, in seno alla c.d. emergenza rifiuti: il Project Manager (ritenuto illegittimo nell’organigramma ideato dalla Procura); un ulteriore tensione interna era emersa sul voto del Senato relativo alla richiesta di arresto del Sen. Azzolini, Renzi lo difese, la sinistra-sinistra, insieme alla c.d. destra (di cui è parte cospicua il M5S), no. E si potrebbe continuare.

A fronte di queste tentennanti ed equivoche posizioni (esemplificate da Expo, ILVA, Lupi, De Luca, Azzolini), Renzi, sul piano generale, ha solo ceduto e, immaginando di essere il più furbo di tutti, è invece facile risulti, alla fine, e neanche troppo avanti nel tempo, il più fesso, con rispetto parlando.

Sembra che Renzi si sia convinto di poter affrontare la questione con una tattica (mai una strategia, nemmeno l’annuncio), diciamo, omeopatica: pertanto, o, di quando in quando, si è fatto promotore di intervenenti per inasprire le pene: per il c.d. omicidio stradale (nome nuovo, in verità) elevandole fino ad una soglia tirannica; per il c.d. scambio elettorale politico-mafioso ampliando l’ambito dei comportamenti punibili fino ai pensieri, o alle chiacchiere, letteralmente: permettendo  di incriminare ora anche “l’accettazione della promessa” che, in concreto, significa consentire all’Autorità Giudiziaria di perseguire, in ambito strettamente elettorale e politico, pure le ombre: se del caso, debitamente ammannite di sostanza equivoca e sospetta.

La stessa magistratura, per capirci, che sta giochicchiando con il buco nero palermitano delle misure di prevenzione antimafia: sia con le indagini (un monumento di garanzia cautelare) che al CSM (tutto un civettare di indisciplina, in attesa che il capro espiatorio vada in pensione, o altrimenti si ricollochi); e, di fatto, coprendo quel buco nero col silenzio e con l’oblio. Grazie anche a un Governo col torcicollo (a parte la partecipazione sulla pantomima del capro espiatorio).

Ma, soprattutto, quale compendio culturale e insieme politico di questo tatticismo inconcludente, Renzi ha pensato di ingraziarsi certa maniera inquisitoria, certo detto e non detto, con l’invenzione di una sorta di deus ex machina che risponde al nome di Autorità Anticorruzione. Alla già dubbia matrice europea, che postula un carattere nazionale italiano naturalmente proclive al delitto in generale, e alla corruttela in particolare, Renzi ha sommato una pletora di competenze che non sembrano avere altro scopo se non di offrire il volto sorridente e sufficientemente compunto dell’ex P.MAnticamorra (si scrive e pronuncia tutto unito): dietro il quale lasciare che ognuno immagini inflessibile rigore e inarrivabile capacità.

Sembra che questa sorta di negoziato improprio funzioni: di recente, la disinvoltura mostrata nell’istituire, quale consulente del Ministero dell’Economia, lo stesso PM che indagava su Banca Etruria e mentre implicava profili sensibili, quanto alle note e infelici intersezioni personali, non è che l’ultimo, e neanche il più clamoroso fra gli esempi. E che il CSM abbia sancito che non era incompatibile, è semmai buona ragione per ritenere il contrario.

Ma tutto questo agitarsi sotto e sopra è solo piccolo cabotaggio: è la via di chi ha scelto di non avere una via.

Renzi, Presidente e Segretario, è in gravissimo ritardo, e l’Italia, ferma da più di vent’anni.

L’augurio, per il 2016, è di voler decidere cosa fare da grande: anche se è già grande.

 


Qui il video della Conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio Matteo Renzi

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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