Dovremmo tutti concentrarci su chi fa Natale in condizioni difficili e talvolta tragiche. Quest’anno il pensiero va ai soldati che cent’anni fa affrontavano il primo Natale di guerra, da qualche mese affondati nelle trincee. C’era mio nonno Cesare tra di loro. Mia madre mi ha raccontato di quei giorni intrisi di disperante attesa: i militi a pochi metri dal nemico nel dilemma uccidere o essere ucciso, i familiari a casa. Speranza e paura i sentimenti dominanti: già perso il sapore della vittoria facile e gloriosa, promessa dagli interventisti e dai loro ingannevoli discorsi.
Quel Natale del 1914 è ricordato dagli storici per la tregua spontanea del fronte. Cominciò dal settore occidentale e coinvolse circa 100.000 tra francesi, belgi, tedeschi, inglesi. Alla vigilia della divina celebrazione, i soldati scelsero di darsi fraternità e senso di appartenenza alla comunità cristiana. Non furono i comandi supremi a disporre, anzi reagirono con dispetto e sospetto, e poi fecero in modo che quegli atti non si rinnovassero negli anni successivi. Ma quella volta i combattenti uscirono allo scoperto, fraternizzarono con gli avversari, potettero abbracciarli, fumare e cantare insieme, riconoscerli come esseri umani. Ci furono anche scambi di doni; partite di calcio dove il fango o il ghiaccio lo consentivano; l’incontro di boxe tra uno scozzese e un tedesco.
Possiamo scriverne cent’anni dopo, nonostante gli Stati maggiori abbiano cancellato tracce e memoria di quegli accadimenti, perché sono emerse lettere, diari, foto, che raccontano e documentano i giorni di tregua che il popolo europeo si diede, in barba al nazionalismo assassino imperante. Si riprese a sparare prima di capodanno, quando ci scappò il primo tedesco morto ammazzato. Era terminata la magia del Natale e la fiducia nell’uomo: avanti con la carneficina.
Ho trovato online le parole del soldato inglese Tom alla sorella Janet. Dopo aver raccontato i fatti della fraternizzazione natalizia, conclude: “Questi non sono i 'barbari selvaggi' di cui abbiamo tanto letto. Sono uomini con case e famiglie, paure e speranze e, sì, amor di patria. Insomma sono uomini come noi. Come hanno potuto indurci a credere altrimenti? … non si può fare a meno di immaginare cosa accadrebbe se lo spirito che si è rivelato qui fosse colto dalle nazioni del mondo … che succederebbe se i nostri governanti si scambiassero auguri invece di ultimatum? Canzoni invece di insulti? Doni al posto di rappresaglie? Non finirebbero tutte le guerre?”.
E’ uscito a novembre il film di Ermanno Olmi, Torneranno i prati, su quella guerra e sulla povera gente mandata a morire. I fantasmi degli italiani evocati dal tocco del maestro, narrano le nostre trincee e fanno sentire in bocca il senso stupido e criminale del conflitto. In un’intervista al Corriere, durante la lavorazione, Olmi diceva che la Grande guerra fu anche guerra di ideali, contrariamente alla Seconda dove la gente fu costretta dalla dittatura a partire per un conflitto non compreso. E che però, anche così ogni guerra è innanzitutto un massacro e che anche quella 1914-1918 finì male, nonostante la vittoria: “Il punto è che da una guerra, vinci o perdi, esci sempre sconfitto. Il giorno dopo (il giorno dopo!) c'era già il fascismo. E Hitler”.
Olmi ha dedicato il film al padre, che gli ha raccontato quella guerra, conoscendo il male dell’oblio: “Di quel che c'è stato qui non si vedrà più niente, e quello che abbiamo patito non sembrerà più vero". Requiem dona eis: sia questo il canto di questo Natale dedicato ai milioni di ragazzi ammazzati dalla Grande guerra, che sulle trincee ballarono e offrirono al nemico i loro canti natalizi.