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June 21, 2013
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La regola e l’eccezione: un rapporto tormentato

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Il pm Antonio Ingroia che da pochi giorni si è dimesso da magistrato per dedicarsi interamente all'attivita politica

Il pm Antonio Ingroia che da pochi giorni si è dimesso da magistrato per dedicarsi interamente all'attivita politica

Time: 4 mins read

 

La VOCE di New York ha intervistato (il 15 Giugno scorso) il Dott. Antonio Ingroia, ex pm a Palermo. Il quale, nell’occasione, ha offerto alcuni spunti degni di nota.

Il “non guardare in faccia nessuno”, riproposto come “essenza” dell’inchiesta sulla c.d. trattativa stato-mafia, e causa delle sue asserite vicissitudini, pare piuttosto uno slogan, buono per una campagna elettorale logoramente didascalica. L’Essenza Probatoria del fascicolo è invece costituita dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. E l'intera materia della collaborazioni di giustizia (categoria alla quale, se non formalmente, certo di fatto è riconducibile il ruolo di questo imputato) postula invece uno sguardo mobile: è sfuggente, amorfa, discrezionale, se non arbitraria.

Ormai non si arriva a “collaborare” per un colpo di testa, dettato da uno sconforto momentaneo. E diventata un’altra via per uscire da quell’insensato cul de sac che è la vita di un mafioso: una via familiare e ampiamente prevista dal criminale: come essere uccisi o uccidere. Questo succede perché passare al “nemico”, da condotta individuale, quasi epica, ai tempi di Buscetta (in realtà un “deluso”, più che un “pentito”) sguarnita persino di una previsione normativa, si è trasformata negli anni in condotta processuale massificata, e, perciò, nel contesto socio-criminale, tendenzialmente accettabile. Tanto diffusa da creare, com’è noto, vasti e profondi problemi di coordinamento fra dichiarazioni che non combaciano o che radicalmente si contraddicono. Essendo un’eventualità non imprevedibile o remota, ne viene che il potenziale collaboratore non arriva al momento delle dichiarazioni sorpreso o mentalmente vacillante, ma come chi ha sempre considerato questa possibilità e, perciò, una volta concretatasi, l’affronta con relativa “normalità”, senza lo sgomento minorante di chi si affaccia sull’ignoto. 

Una tale mutato “sostrato antropologico” è ovviamente noto anche all’Autorità e si riverbera sui modi e sui contenuti “reali” della collaborazione. Quando se ne avvia una, sin dai primissimi momenti, l’interessato conosce il gioco e conosce il valore della sua “merce”, che pertanto propone con navigata filigrana mercantile. E’ allora tutto un "aggiustare", un "calibrare": ricordi, sfumature, accostamenti, rispetto ai quali i verbali o assolvono la funzione di ornamento postumo o restituiscono al lettore una trama discorsiva e dialogica spesso incomprensibile e talvolta quasi esoterica: giacchè le parole, quando costituiscono solo una parte di assai più complessi “contesti esplicativi”, non dicono granchè. 

Tutto questo, entro certi limiti, è indispensabile. Ma ciò significa che vi è un area di “sapere primigenio”, e da cui ogni successivo sviluppo investigativo e processuale discende, che deve, nel senso proprio che è "necessario sia", essere sottratto alla "visione democratica". La chiamiamo intelligence, cioè “operazioni segrete”. Quello che conta è che l'intera struttura ordinamentale, processuale e probatoria della c.d. collaborazione di giustizia nasce da una fecondazione segreta e amorfa.

Ora, se si stesse sempre al gioco, cioè alla difficile e delicata responsabilità che quella fecondazione segreta e amorfa produce, nulla da dire. Anzi, uno se lo potrebbe spiegare come uno dei tanti segmenti del tragico (cioè di una contraddizione che impone di “superare limiti”) insinuatisi nell'agire politico e istituzionale. Come un’indomabile contesa fra “regola” ed “eccezione”, un rapporto tormentato e irrisolto. Ma il processo sulla c.d. trattativa ha impedito questa dolorosa e necessaria comprensione; e lo ha impedito non perchè ingenuo, ma perchè sleale. Sarebbe stato ingenuo se avesse preteso tradurre il preteso mainstream gesuitico-kantiano della "casa di vetro". E' invece sleale, per tutto quello che chi lo ha promosso sa e finge di non sapere. E su questa deliberata ignoranza si fondano le accuse.

A chiarire ulteriormente l’ambiguità di simile atteggiamento, si potrebbero considerare esperienze istituzionali del recente passato e informarsi su quante facce dovette guardare e quante non guardare il Dott. Caselli: al tempo in cui, Giudice Istruttore a Torino e titolare di molte “istruzioni” sul terrorismo rosso, gestì il c.d. frutto probatorio delle operazioni del Generale Dalla Chiesa, da Via Fracchia in poi (quattro brigatisti uccisi in una più che dubbia sparatoria). Anche allora si trattava di impersonare un ruolo tragico. E fecero bene a fare quello che fecero, a guardare le facce che decisero di guardare, e a non guardare le facce che decisero di non guardare.

Perché allora non lo si dice a chiare lettere? Forse è una questione di potere. Il potere di definire la regola e l’eccezione. Un potere immenso. Un potere sopra un altro potere. Prima c’è il potere di gestire un "sapere ad alto impatto performativo", nato dall'ombra, dal segreto, e dalla penetrazione silente nelle vite di ognuno. E poichè i rapporti sociali sono fondati su un imprescindibile nucleo convenzionale di "non detto" e "non visto" e "non udito", sulla cui base sono, a loro volta, costruiti tutti i sistemi di valutazione e di pensiero, già il potere di attingere a piene mani da quel nucleo pone, chi investiga sul campo e chi accusa in aula, in una condizione di evidente prevalenza. Ma poi c’è il potere sul potere. Quello di stabilire quando e contro chi farne uso. Questo pone in una condizione che solo il mito greco può esprimere: dèi che da un moderno Olimpo possono scendere e risalire dalla Terra, impiegando l'umanità come materia inerte per animare il loro mondo superiore e inattingibile.

Non a caso, alla fine dell’intervista, si lascia intendere che essendo il capo della Procura Messineo "in uscita", si poteva soprassedere con il procedimento disciplinare. Ne traluce proprio una concezione privatistica e dominicale del proprio ruolo e dell'intera istituzione giudiziaria, a partire dal CSM; cioè, siccome tutto quello che facciamo serve ai nostri giochi interni, una volta che il turno di uno di noi stava per finire, non c'era bisogno di darsi tanto da fare; più o meno come Gherardo Colombo e Ilda Boccassini che, dopo essersi dette cose indicibili (questa aveva detto di quello essere indegno di presenziare ai funerali di Falcone), ci hanno fatto sapere che "si sono chiariti". E noi? Tanto ci deve bastare? Ancora una volta, movenze impropriamente olimpiche.

Per quanto potremo ancora nasconderci dietro Berlusconi?

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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