Nel 1852 Cavour fu primo ministro, per la fortuna del regno del Piemonte e soprattutto del futuro stato italiano, grazie al cosiddetto “connubio”: la coalizione tra centrodestra cavouriano e centrosinistra di Urbano Rattazzi. Maggioranza stabile per un quinquennio, fin quando Rattazzi, sembra anche per pressioni regie, avrebbe abbandonato il gioco.
Lo storico inglese Christopher Seton-Watson, riferendosi a quel momento storico e all’“invidia” con la quale, secondo lui tutti i successivi presidenti del Consiglio avrebbero guardato a quella felice esperienza, scrisse in “Storia d’Italia”: “Nel parlamento italiano, come in quello piemontese prima del 1860, le maggioranze furono create dai governi, e non questi da quelle, e l’elettorato ebbe ben poca voce in capitolo nella scelta del presidente del Consiglio, e nessuna nella composizione del governo”.
E’ un commento che calza a pennello sulle voci di palazzo che danno per scontata la conferma a capo del governo del prof. Monti, dopo le elezioni di primavera. In certe stanze si ritiene di dover confermare la tesi del grande storico inglese, magari partendo col rendere impossibile l’approvazione della nuova legge elettorale che consentirebbe ai cittadini di fissare la maggioranza di governo e il suo leader. Si noti che, come è stato costretto a richiamare il presidente della Repubblica, il senatore a vita non può presentarsi al giudizio degli elettori. Si registri anche che tutti i capipartito hanno escluso di volergli un domani cedere il passo, ritenendo superata la fase eccezionale che ha consentito a Napolitano l’azzardo costituzionale del “governo del presidente”.
Partiti e opinione pubblica non danno un giudizio pienamente positivo dell’operato del presente governo (è intorno al 30% dei consensi), e vogliono tornare al gioco della dialettica parlamentare tra maggioranza e minoranza.
Al paese va risparmiato un dopo elezioni nel quale, non dandosi maggioranza, si sia costretti a scegliere tra la prosecuzione dell’attuale sistema di sostegno parlamentare ad un Monti bis in stile “connubio”, o il ritorno alle urne magari ancora senza nuova legge elettorale. Abbiamo bisogno di un governo politico, forte e autorevole, che risponda alla sua maggioranza in Parlamento e ai suoi elettori nel paese. Un governo che faccia finalmente disincagliare l’Italia dal pantano nel quale è stata cacciata da troppi decenni di cattivo governo o di non governo. Rifletteva qualche settimana fa il prof. Gabriel Tortella, dalle colonne del madrileno El País, sull’attualità del pensiero di Charles de Secondat, barone di Montesquieu.
La sua tripartizione del potere statale, e la conseguente autonomia che parlamento governo e magistratura devono godere l’uno dall’altro, è attaccata, sosteneva il cattedratico spagnolo, da chi vi vede l’origine dei nostri mali, quasi che, garantendo il controllo politico (parlamento) e giudiziario (magistratura) sull’esecutivo, questo si ritrovi spogliato delle prerogative per intervenire sulla crisi con efficacia ed efficienza.
Tortella ricordava che impedire ad un governo di prescindere da un parlamento significa vaccinarlo dall’arbitrio e dalla presunzione di essere unico onnisciente interprete dell’interesse nazionale. Rischio strutturalmente presente in paesi che, come Italia e Spagna, per conformazione socio-culturale (la Chiesa mise all’indice nel 1751 “Lo spirito delle leggi” di Montesquieu dopo la bocciatura della stessa Sorbona) e per fattori geo-economici, si sono distinti nel Novecento per lunghe fasi di autoritarismo politico e sfruttamento dei più da parte di ceti burocratici e finanziari.