Nel quarantena rio dell’apertura del Vaticano II, hanno cercato di mettere a fuoco le conseguenze che quel Concilio ha prodotto sulla Chiesa e sul suo rapporto con il mondo. Benedetto XVI, nella cerimonia che ha radunato in San Pietro quattrocento vescovi e ventimila fedeli per rinnovare la processione che l’11 ottobre 1962 portò i padri conciliari nel grande tempio della cristianità, ha chiesto di tornare alla “vera eredità” del Concilio, sfuggendo a “nostalgie anacronistiche” e a “corse in avanti”. Il Papa ha affermato che nei documenti approvati dal Vaticano II s’incontra “la novità nella continuità”, rilanciando il tentativo, fallito già a Wojtyla, di riportare nel solco della dottrina conciliare i riottosi che non vogliono riconoscervisi.
Riandando ai giorni del Concilio, non c’è dubbio che Giovanni XXIII, papa non solo “buono” ma forte, consapevole dell’arretratezza dell’istituto ecclesiale rispetto alle sfide dei tempi, voglia che gerarchie e pastori del “popolo di Dio” si chiedano come cambiare la Chiesa per consentirle il dialogo con la contemporaneità. La pletora di cardinali, vescovi, esperti, non solo cattolici, in arrivo dal mondo, esprime già prima di essere a Roma contrasti tra le componenti di un istituto ecclesiale che, per essere universale, deve scontare contrasti culturali e molteplicità di approcci morali. Paradossalmente il confronto passa soprattutto all’interno della famiglia cattolica, in particolare per la disciplina canonica e le “nuove etiche” in materia di sessualità e famiglia. Al contrario la spinta al dialogo tra cristiani di diversa confessione, e tra cristiani e non cristiani, che il Papa avanza nel segno dell’ecumenismo, risulta convincente e fruttuoso. Il contraddittorio internoalla cattolicità diviene virulento sotto il successore, Paolo VI, che porta a conclusione il Concilio nel 1965, a torto più che a ragione ritenuto dai cosiddetti innovatori responsabile di frenare la spinta impressa dal predecessore al dialogo tra Chiesa e modernità. E’ un confronto anche aspro che prosegue nei decenni successivi, e attraversa il lungo papato del Papa polacco e oggi del Papa tedesco, manifestandosi recentemente in modo non proprio decoroso in morte del cardinale Martini e di Vatileaks. In gioco non è tanto l’interpretazione delle quattro costituzioni, delle tre dichiarazioni e dei nove decreti partoriti dal Vaticano II, ma il progetto, voluto da Giovanni XXIII di ricondurre le istituzioni ecclesiali alle origini, alla pratica convinta e costante del Vangelo, fuori da collateralismi con poteri politici e ceti sociali vincenti. Una Chiesa pastorale, con minore ricorso al dogma, propensa al dialogo con credenti e non. Non si può dire che l’eredità giovannea sia stata integralmente raccolta: la Chiesa, specie in materia di morale, appare nel guado di un dialogo incompiuto con la contemporaneità. Al tempo stesso grandi sono stati i progressi che il Concilio ha prodotto nell’apertura verso altre religioni, inclusa quella ebraica. Mentre Giovanni XXIII agonizza, il rabbino capo Toaff, e tanti ebrei romani che lo accompagnano, recitano in piazza san Pietro i salmi ebraici per i morienti. Il 28 ottobre 1965, tra i mugugni di vescovi arabi e conservatori, la dichiarazione Nostra aetate nega che gli ebrei siano responsabili della morte di Gesù. Tre anni dopo i vescovi francesi ottengono dal rabbino capo di Parigi, Jakob Kaplan, di essere considerati “non idolatri”, con “moralità” e capacità di “accesso alla vita eterna”, in grado come gli ebrei, di “contribuire al bene dell’umanità, e favorire l’avvento del Messia”. Al termine del Concilio, ortodossi e cattolici avevano cancellato le reciproche scomuniche, vecchie di novecento anni.