Tra i vantaggi del sempre più incerto mestiere di giornalista c’è che, ogni tanto, capita di essere chiamati a vedere delle cose bellissime. L’Accademia di Francia a Roma, per esempio (nella foto, la facciata interno sul parco). Villa Medici, come è familiarmente chiamata, domina uno dei più bei panorami di Roma dalla collina del Pincio al culmine della scalinata di piazza di Spagna e sopra piazza del Popolo. È uno dei luoghi più noti della città ed è difficile dire se sia più bello l’enorme e raffinato palazzo, costruito nel 18esimo secolo sul terreno dove in epoca romana sorgeva una villa del generale Lucullo; o se si resti invece affascinati di più dall’enorme parco, curatissimo e costellato nei suoi vari “quarti” di statue antiche e anticheggianti. La settimana scorsa Eric de Chassey, da tre anni direttore dell’Accademia e recentemente riconfermato per un altro triennio, ha invitato un gruppo di corrispondenti di media stranieri per illustrare gli ultimi programmi della istituzione transalpina. Ed è stata, lasciatemelo dire, una festa per gli occhi e per lo spirito. Con, confesso, anche una punta di invidia. Già perché nella “mission” dell’Accademia – che negli anni Sessanta e Settanta è stata restaurata, rilanciata e riportata al centro della rete culturale europea da uno dei più attivi predecessori di de Chassey, il geniale artista Balthus – c’è da sempre l’accoglimento di una quindicina di artisti residenti: per lo più francesi ma non solo. Hanno tutti l’obbligo di “darsi da fare”, di lasciare un segno della loro attività; originariamente venivano inviati dal Re di Francia con il compito preciso di copiare le opere d’arte romane arricchendo così la propria arte. Mediamente restano un anno. E – questo è ciò che mi ha provocato la botta di invidia – sono alloggiati all’interno dell’Accademia. Alcuni vivono negli chalet settecenteschi disseminati nel parco, isolati in mezzo al verde di pini secolari. Roba da farsi venire la voglia di … trasformarsi in artisti e fare la domanda nella speranza di essere accolti!
Tra le cose che mi hanno colpita nel corso della piacevolissima mattinata c’è però anche un altro fatto, all’apparenza minore: una frasetta di de Chassey, pronunciata quasi casualmente e con un sorriso ironico. Eravamo nella Cafeteria, molto affascinante e particolare: per ora ci possono accedere soltanto i visitatori paganti dell’Accademia, muniti di biglietto, quindi è per pochi, ma si sta studiando il modo di renderla autonomamente accessibile dall’esterno e allora, sono pronta a scommetterci, diventerà uno dei nuovi ritrovi alla moda e dei “must” della Capitale. Qui, tra gli altri, possono mangiare anche i fortunati artisti residenti. In pratica è uno dei soli momenti conviviali di questo gruppo di privilegiati, non ci sono sale comuni.
«Perché, diciamolo, i francesi e gli europei in generale non sono come gli americani che fanno comunità», ha spiegato il Direttore. «Siamo individualisti e poco disposti e fare gruppo. Per rendersene conto basta restare a Roma e andare a vedere la differente situazione alla American Accademy». O, aggiungo io perché la conosco bene, alla sede romana della Loyola University, a sua volta uno splendido posto immerso nel verde, stavolta di Monte Mario.
Già questa è una delle grandi differenze tra la cultura latino-mediterranea e quella anglosassone. Una differenza che spiega molto, a cominciare dall’attuale predominio della versione americana del modello anglosassone rispetto alla certamente affascinante e ricchissima cultura della vecchia Europa. Che è, appunto, vecchia.