L’avvitamento della Grecia, l’urlo degli Indignados che arriva dalla Spagna, il buco di due miliardi di JP Morgan, raccontano che la crisi finanziaria è ancora tra di noi e che nulla fa pensare che la sloggeremo a breve.
Qualche lume in questa direzione viene dal XVI rapporto sull’economia globale e l’Italia, curato da Mario Deaglio, presentato settimane fa a Roma da Iai e UbiBanca. Piace, del libro, la spavalderia sulla fine dell’“età dell’oro” dell’Occidente, insieme alla consapevolezza che il baricentro del potere mondiale, complici Europa e Stati Uniti, si trasferisce in Asia. “La crisi che non passa”, questo il titolo del Rapporto, stima che si chiude l’epoca della nostra presunzione, che nella crisi di sistema perde soprattutto l’Europa, ripiegata negli egoismi nazionali, incapace di accelerare verso istituzioni federali con nuove regole e prospettiva strategica.
Il caso ha voluto che, contemporaneamente alla presentazione romana del volume, da Washington Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, Fmi, facesse sapere che nei paesi sudeuropei "una persona su cinque e un giovane su due non trova lavoro”, aggiungendo che si trattava di un “potenziale disastro, in termini economici, sociali e umani".
Il direttore del Fmi aggiungeva che nel mondo ci sono 200 milioni di disoccupati, con 75 milioni di giovani, prendendo posizione a favore di politiche pubbliche di stimolo alla crescita: ‘"austerità contro crescita è un falso dibattito perché si può mettere a punto una strategia buona per la stabilità e per la crescita".
Il G8 di Camp David appena chiuso, avrebbe echeggiato quella posizione, facendo apparire un consenso ampio sulla necessità di stimolare la crescita, attraverso misure di intervento pubblico. Resta da capire come una manovra del genere possa prodursi prima che il risanamento di grandi banche e dei bilanci pubblici sia stato portato a termine o almeno messo in sicurezza, per evitare di spingere nuovamente il debito in situazioni fuori controllo. Le posizioni evocate, i contenuti di un Rapporto che pur facendo valere qualche argomentazione eretica si erge, dinanzi alla crisi, nel campo della dottrina dominante, non accettano la tesi, più volte esposta in questa rubrica, che la crisi iniziata nel 2008 tra Asia e Stati Uniti, abbia carattere soprattutto politico e sia diretta conseguenza degli abusi di una globalizzazione che ha ingrassato la finanza speculativa, in particolare quella dei Fondi sovrani non democratici.
Si afferma che serve maggiore governance sistemica? Chi e come dovrebbe realizzarla, visto che gli stati appaiono proni allo spontaneismo del cosiddetto mercato, riottosi ad ogni e qualunque condivisione di regole e controlli?
Si teorizza che blocchi commerciali fondati su presupposti politici e regole sociali divergenti (vedi Cina e Unione europea) possano competere ad armi pari? Impossibile: vince chi non deve confrontarsi con le procedure della democrazia (ad esempio presentandosi ad un elettorato libero di spedire a casa il governo), chi non ha che pochi obblighi sociali e sindacali con cui fare i conti e può produrre a costi irrisori.. Veniamo da un’epoca felice che ha barattato il warfare dei totalitarismi novecenteschi con il welfare democratico della Carta Atlantica e di Beveridge.
Chi suona la campana a morto per il welfare (Marchionne che cita Monti, ad esempio) davanti alla questione sociale che avanza, scherza con un fuoco che può bruciare le istituzioni di democrazia in Occidente. Piuttosto, lstato e politica retrocedano dall’invasione di economia e società, rinuncino a privilegi pagati da chi sgobba per pagare le imposte, esibiscano rigore e sobrietà.