"Celtic Footprints Tour 2012" di giovedì, è di quei concerti che non si dimenticano. La protagonista, Loreena McKennit, ha portato a Roma musicisti d’eccellenza che con lei hanno interpretato a perfezione il misticismo e l’armonia degli album che l’hanno imposta in tutto il mondo. Ha meritato per questo, dal pubblico dell’Auditorium, “standing ovation” a ripetizione.
E’ un’artista che seguo da anni e che mi ha dato molto: copertine e testi curatissimi, video frustranti per la perfezione che li sostiene, voce angelica. La sua musica, ispirata alla ricchezza della ballata celtica con puntate nella vena musicale mediterranea, promette la perdizione nelle atmosfere oniriche, dove il tempo è rarefatto nell’immaterialità.
Sostenuta da una robusta cultura teosofica oltre che musicale, Loreena ha fatto della ricerca etnomusicale sulle radici dell’uomo contemporaneo la ragione della sua arte. Anche gli strumenti che l’accompagnano risentono di quest’opzione di vita professionale e non solo. Lei è piano, fisarmonica, arpa. Accanto ha un concento di chitarre, cornamusa, violoncello, violino, ghironda, percussioni, basso, flauti.
Musica e canto, tra i linguaggi umani, sono quelli con la più ampia capacità di penetrazione e accessibilità. La McKennitt, prima voce indiscussa del genere celtico eclettico, fa di questa capacità un grimaldello che scardina mente e cuore di chi l’ascolta, nella simbiosi della vibrazione intima. La lunga tournée europea è un inanellarsi di successi, perché magnetizza il pubblico dentro l’itinerario della sua ricerca antropomusicale, dall’esplorazione delle radici celtico-sassoni (“Blacksmith”, “She Moves Through The Fair”) al lungo intenso viaggio attraverso il Mediterraneo e l’Asia Minore. Eurasia appare, nelle corde di Loreena McKennit, non più il sogno mitico dell’antichità protoellenica, ma la realtà culturale effettuale espressa nella circolazione di quattordici milioni di copie di dodici album.
E’ una metamorfosi, quell’itinerario musicale, che si ritrova nella biografia della cantautrice. Canadese, figlia di un commerciante di bestiame e di un’infermiera venuti da Scozia e Irlanda, arriva alla ribalta internazionale da un villaggio disperso nelle praterie. Inizia a pubblicare musica nel 1985 (“Elemental”), ma si ferma nel 1998, colpita dalla perdita nel lago Huron del pro promesso sposo Ronald affogato con un amico mentre fa canottaggio. Si rinserra in un decennio di astinenza da musica e platee.
La vita torna con i viaggi che, in avvio di nuovo millennio, compie dove è nato l’uomo e la sua civiltà. In Europa, Medio Oriente, Asia, assorbe spunti, idee, emozioni e pubblica il secondo album, “An Ancient Muse”, registrato ai Real World Studios del santone Peter Gabriel. Da qui si aprono le cateratte di un’ispirazione che non accenna a seccarsi: da “Midwinter Night’s Dream” del 2008 all’ultimo “The Wind That Shakes The Barley”. Lavora con etichetta indipendente e con prodotti di qualità superlativa. In Italia scende in più occasioni per tre anni consecutivi tra il 2007 e il 2009, vellicando con lealtà e grazia un pubblico devoto. L’altra sera è stata grande interprete del suo personaggio, incorniciato dalla lunga chioma ramata, sfuggente ad ogni forma di divismo. Non ha cambiato abito, ha lasciato spazio ai virtuosismi dei musicisti, ha concesso repliche e dialogato con la sala. Ha cantato, da donna innamorata dell’amore: “Sono questi i miei sogni, così pochi e semplici, sogni che teniamo nel palmo delle nostre mani”.