Tra le pubblicazioni meritevoli di citazione, apparse per i centocinquant’anni dell’unità italiana, c’è quella del Centro studi investimenti sociali, Censis, sui valori che circolano nella penisola.
Occorre capirsi sul termine “valore”, di generale condivisione quando riferito al costo di un bene materiale, più sfuggente se rapportato alla sfera psichica e morale, ai “costumi” (bene fa Giuseppe De Rita a citare nell’introduzione il Leopardi del 1824).
In ambedue i casi, il materiale e lo spirituale, contrariamente a quanto riteniamo, valore è risultato collettivo, sorta di “benchmark” generato dal giudizio del gruppo sociale: incontro tra domanda e offerta nel valore economico, frequenza comportamentale o di opinione nel valore eticamente inteso. Nikolaj Spasskij, ex ambasciatore russo a Roma, nel romanzo “Le reliquie di san Cirillo”, interpreta la storia del suo paese partendo dai valori guida, che dice aver avuto origine nello scisma cristiano da Roma, nell’opposizione di Mosca all’Occidente, nel “mito autolesionista di un cammino specifico russo”. Nel commento che Luigi Ippolito fa a quell’affermazione, il principe Vladimir avrebbe scelto
la magnificenza dei riti di Bisanzio come espressione dell’assolutismo orientale, dando un calcio al codice di Giustiniano, al “senso romano del diritto e dello Stato”.
Questo, per dire quanto sia rilevante, nella storia di un paese, il sistema valoriale di riferimento e la sua evoluzione nel tempo. Per l’Italia il Censis rileva che l’attuale fase segna il transito dall’individualismo al senso di appartenenza, dalla ricerca della soddisfazione personale e familiare all’identificazione in un interesse collettivo e comunitario.
Così come la spinta all’autoaffermazione era servita, nella fase ascensionale dalle povertà endemiche, a portare l’Italia nel gruppo dei più industrializzati, la riscoperta dell’altro, delle relazioni, della responsabilità sociale dovrebbe ora soddisfare il bisogno di moralità nella vita pubblica e di equità nella distribuzione dei carichi per lo sviluppo. Si tratterebbe del ritorno ad atteggiamenti e pratiche sui quali si è costruito il Dna degli italiani, attraverso le “ecclesìe” solidali del protocristianesimo, le comunità operose di Comuni e Signorie, le repubbliche e i movimenti di massa che dal 1848 al secondo dopoguerra hanno caratterizzato la vita pubblica peninsulare.
La frantumazione della civiltà condivisa di paese e villaggio, prodotta da industrializzazione e polarizzazione capitalistica, troverebbe nella crisi della società terziaria l’ispirazione al ritorno a relazioni, spiritualità, impegno civile e sociale. Starebbe accadendo, grazie alla crisi economica e alle sue onde d’urto sulle sfere sociale e psicologica, qualcosa di simile a ciò che in passato si produceva al termine delle guerre: ritorno alla convivialità e alla cura dell’interesse generale. La soggettività non si sente più autosufficiente, l’aggressività non paga. Si riscoprono modelli e figure di garanzia come il padre e la madre, si chiedono moralità e rispetto reciproco, si guarda alla famiglia e al gruppo, ai diritti sociali (lavoro, istruzione, salute) più che a quelli individuali (divorzio, aborto, sessualità).
Consentendo il confronto con un’analoga ricerca del 1988, il libro fa apprezzare la profondità del cambiamento in corso. Preoccupano oggi più di ieri la crisi economica (57,5% contro 36,5), la corruzione politica (41,1% contro 30), la criminalità (24,4% contro 13,4), l’immigrazione (23% contro 6,2); e di meno la violenza (18,6% contro 23,9), l’inquinamento (36,7% contro 9), il terrorismo (17,7% contro 3,2). E’ un paese che per il 60,1% degli intervistati va verso profonde diseguaglianze socioeconomiche. Il prof. Monti, la prof.ssa Fornero ne sono sicuramente informati.