Per anni ho considerato il nutrimento un’imposizione noiosa e sgradevole che andava trasgredita alla ricerca del piacere. All’ora di pranzo mi si chiudeva la bocca dello stomaco e mi assaliva una voglia matta di ballare, cosa che facevo regolarmente a casa, gettando nella disperazione i miei genitori. A 17 anni, durante un lungo soggiorno in California, ho scoperto il junk food: era quello che faceva per me. Burghy e donaughts, altro che risotto e scampi. In verità già prima preferivo farmi un panino di salame o una intera scatola di cioccolatini, cibi proibiti, piuttosto che una spigola o un filetto. Almeno fino alla soglia dei trent’anni. Neanche dieci anni dopo diventavo una dei critici gastronomici della Guida dei ristoranti dell’Espresso, la più autorevole in Italia. Mio padre, gran gourmet e chef sopraffino per passione, rimase basito: "Come fanno a far scrivere di cibo una che non ne capisce niente?" In verità io ho passato la vita a mangiare molto bene a casa e nei migliori ristoranti e alberghi, servita e riverita. Era la normalità e la normalità non è mai eccitante. E proprio perché sono stata ossessionata dal culto del cibo, di cibo me ne intendo anche troppo, per questo trovo sempre il pelo nell’uovo e per questo come critico vado benissimo.
In America ci sono tornata altre volte: tra gli anni ’70-’80 ho fatto il pieno di cucina cinese, thai, coreana, giapponese, messicana… e chi più ne ha più ne metta, quando in Italia il massimo del mangiar strano era la pizza. Fu allora che io, vegetariana ante litteram, cominciai ad apprezzare l’odiata bistecca: non ne potevo più di mangiare orientale ogni giorno.
La scorsa settimana ero a New York: non ci venivo da tempo e mi ha assalito la voglia di pasticciare un po’: non mi sono fatta mancare neppure un peanut butter explosion sulla quinta strada, tanto per ricordare i bei tempi. Non lo rimpiangerò. C’è un limite oltre il quale non c’è più qualità e la trasgressione diventa vana. Oggi per me il cibo è consapevolezza – finalmente – del suo effettivo valore qualitativo. Non voglio parlare di valore calorico, perché chi mangia per passione se ne strafrega della dieta. Oggi so con certezza quale piatto, a parità di tipologia gastronomica, sia più buono, saporito, migliore, preparato con ingredienti naturali e di ottima qualità. Non mi faccio più incantare né dall’aspetto né dalla novità o dalla stranezza della preparazione, come purtroppo fanno molti importanti critici eleggendo nuove star dei fornelli che spesso prendono tutti per i fondelli. Oggi adoro la cucina della tradizione: sento che mi nutre e sento che mi trasmette il sapore della vita, che non è fritto misto in salsa cinese. Ciò non toglie che una tantum mi piaccia assaporare cucine diverse quando hanno una storia da raccontare.
Stefano Vaccara, direttore di Oggi 7, mi ha fatto fare una affascinante esperienza esotica allo Spice Market nel Meatpacking District, sia per la bellezza del locale che la ricercatezza dei piatti. Da New York sono andata qualche giorno a Miami Beach. Anche qui ho provato di tutto. L’ultima sera, consigliata da Marco Posperi direttore della splendida boutique Coltorti in Lincoln Road, sono andata a cena da Piola in Altan Road: desideravo assaggiare una pizza fatta da italiani in America. Che dire? Oltre ogni aspettativa: nulla da invidiare a una pizza fatta in Italia, anzi. La mozzarella era di fiordilatte e il pomodoro fresco, ma soprattutto la pizza non era salata, segno che la lievitazione dell’impasto è naturale e fatta a regola d’arte. Mi sono imbattuta nei proprietari: due fratelli di Treviso, Stefano e Dante Carniato, che fecero la loro prima pizzeria in America, a Miami, nel ’94. Da allora ne hanno aperte 8, diffondendosi anche in America Latina e arrivando a una catena di 40 locali. Inutile dire che il rapporto qualità prezzo è rispettato. Un piatto semplice come la pizza può essere tuttavia molto artificiale o molto naturale: dipende a chi ci si affida per il nostro nutrimento. E se noi siamo quello che mangiamo – ho visto troppi obesi in America a causa degli additivi chimici – viene da chiedersi perché privarsi del piacere di mangiar bene e di star bene.