Era marzo, come ora, con la primavera che iniziava a sciogliere le nevi sulle Alpi. Dolcino da Novara e i suoi, cessata la protezione di Matteo Visconti, ripiegarono sopra Trivero, risalendo il monte Rubello, in quella lingua di terra biellese che risucchia il Piemonte verso la Svizzera. Fiduciosi nel carisma, si misero ad attendere che le profezie trovassero realizzazione. Il millenarismo pauperistico colpiva duro in quel 1306: uomini e donne della comitiva, laceri e affamati, pur sapendo quali rischi corressero, si mantenevano fedeli ai princìpi religiosi e morali di Gherardo Segalelli, fondatore degli “Apostolici” e maestro di Dolcino, bruciato sul rogo come eretico.
Quella fede era contrastata dalle gerarchie ecclesiastiche e civili con accuse di eresia e blasfemia, per le dure critiche contro una Chiesa troppo ricca e troppo immersa nelle cose del mondo. I ribelli, per garantirsi un minimo di difesa e la razzia di cibo nelle case ricche, si erano armati, ma nulla avrebbero potuto contro un attacco condotto da milizie vescovili o da mercenari Papa Clemente e il vescovo di Vercelli, Raniero degli Avogadro, erano andati anche oltre le misure varate negli anni di Bonifacio VIII, dichiarando contro gli Apostolici una vera e propria Crociata.
I seguaci di Dolcino, accerchiati e senza cibo, resistettero un anno: il Giovedì Santo del 1307 la loro avventura politico-religiosa era conclusa. In migliaia furono trucidati sul posto. A Dolcino non furono risparmiate né le torture dell’anima né quelle del corpo: vide il rogo del luogotenente Longino da Bergamo e dell’amata Margherita, fu esibito su un carro per le strade di Vercelli mentre tenaglie arroventate lo martoriavano fino a strappargli naso e pene. Le cronache dicono che non diede ai torturatori la soddisfazione di un solo lamento, prima del rogo purificatore.
Sulla vicenda dell’eresiarca piemontese, torna l’ultimo libro di Lorenzo Strona, un amico che di mestiere fa Comunicazione istituzionale e aziendale, e che non perde occasione per sfornare scritti di forte impatto morale e culturale in riviste specializzate e non. Con “L’ontano nero” torna su uno dei temi che gli sono cari: il rapporto tra morale individuale e fede, tra potere religioso istituzionalizzato e libertà delle coscienze.
Lo fece anni fa ristampando per gli intimi il “Trattato sulla tolleranza” di Voltaire, con il religiosissimo urlo tutto umano della “preghiera a Dio” là contenuta Lo fa oggi rimpastando per il palato dei contemporanei una storia vecchia di settecento anni, dispiegatasi nell’arco di un quindicennio, in tempi che vedevano il potere religioso e politico della Chiesa di Roma esprimersi col Vangelo e la spada, mischiare cinismo di governo e missione cristiana, atterrendo ogni oppositore con l’alternativa tra adesione pedissequa al dettato ecclesiastico e il rogo del braccio secolare.
Il romanzo è costruito sui documenti e le memorie tramandati nel tempo, con qualche inserimento, come la voce narrante, che servono a sorreggerne l’impianto narrativo.
L’apparente obiettività del testo non riesce a nascondere che l’autore, come il narratore, compiange la sorte di Dolcino e Margherita, e dei tanti che si erano stretti loro intorno confidando nella giustizia e misericordia di Dio. La voce narrante, frate Albino da Montesilvano, chiude il racconto nell’anno del Signore 1312, ricordando lo sguardo nostalgico di Dolcino morente sull’annerito ontano dei giochi dell’infanzia. Accadeva nell’orbe cristiano, giusto sette secoli fa. Bisognerebbe ricordarsene, quando condanniamo senza misericordia integralismo e furia omicida di Islam e Induismo.