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January 29, 2012
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Mio nonno capitano Costa, finito a Dachau

Elisabetta de DominisbyElisabetta de Dominis
Time: 4 mins read

A noi Schettino, a voi Auschwitz" ha titolato Il Giornale riportando la copertina del settimanale Der Spiegel che ci definisce un popolo di codardi "perché gli italiani non sono una razza”. Il direttore Alessandro Sallusti ha commentato: "Che i tedeschi siano una razza superiore lo abbiamo già letto nei discorsi di Hitler", aggiungendo che "noi italiani alla Schettino abbiamo sulla coscienza una trentina di passeggeri della nave, quelli della razza di Jan Fleischauer (autore dell’articolo) ne hanno ammazzati sei milioni. Erano gli ebrei trasportati via treno fino ai campi di sterminio".

Ironia della sorte: mio nonno materno Giovanni Bradini, a causa di una nave Costa, è finito in un campo di concentramento tedesco, anzi in tre. Era l’8 settembre 1943 e si trovava nel porto di Amburgo su una nave Costa di cui era comandante. Si rifiutò di consegnarla ai tedeschi dichiarando: "La guerra è finita ed io rispondo unicamente agli armatori Costa". (Il nonno era tosto: un irredentista che nella prima guerra mondiale si era rifiutato di combattere per l’Austria, scavalcando il confine sotto gli spari). L’equipaggio si ammutinò consegnandosi ai tedeschi e lui solo quindi venne arrestato e condotto a Sachsenhausen. (L’equipaggio poi perì sotto un bombardamento alleato).

Mia nonna fece di tutto per liberarlo sia attraverso la richiesta degli armatori sia con l’invio di una somma ingente. Poi continuò a mandargli soldi, abiti, viveri. Ma mio nonno non ricevette mai nulla. Nonna Libera non sapeva cos’era un campo di concentramento: chi ci entrava non usciva più. Erano campi di sterminio mascherati da campi di lavoro, tanto che ancora oggi lo Stato tedesco rimborsa i detenuti solo se possono dimostrare di esser stati internati in un lager di sterminio: hanno l’onere della prova! Il risarcimento, secondo quanto mi comunicò cinque anni fa uno studio legale italo-tedesco, va dai 2500 euro ai 7500, spese del ricorso amministrativo escluse. Una cifra ridicola di cui i tedeschi non si vergognano, il che dimostra che non si vergognano del loro passato.

Da un recente sondaggio è risultato che i giovani tedeschi, fino a trent’anni, non sanno cosa sia stato l’Olocausto. O non vogliono sapere. Io l’ho sempre saputo. Ogni anno, quando ero alle elementari, gli insegnanti ci portavano a vedere la storia di Anna Frank al cinema o a teatro. C’era da piangere. Ma ancora prima di andare a scuola sapevo tutto. Come sanno i bambini, certo. Le mattine d’inverno mi infilavo nel lettone dei nonni per sentire una storia. Il fine del nonno era farmi capire quanto io fossi fortunata. Le storie erano: o quella del lupo di Lussino, l’isola dove il nonno era nato, che era adeguata all’ululare spaventoso della bora contro gli infissi delle finestre, o quella del campo di concentramento, dove si mangiavano solo bucce di patate, che era indicata per una schizzinosa come me. Mi raccontava che lo gettavano nudo nella neve e poi gli facevano una doccia bollente. Ma non mi ha mai detto perché. Dapprima il nonno venne assegnato a lavoro forzato in una fabbrica di armamenti nel campo di Sachsenhausen, 35 km da Berlino: ne fecero fuori 100 mila tra malattie, esperimenti, fucilazioni, impiccagioni e forni crematori. Poi venne trasferito a Buchenwald, il bosco di faggi vicino a Weimer, nella Germania orientale. All’ingresso c’è ancora la scritta: "A ciascuno il suo".

Qui morirono, in modi diversi appunto, 56 mila internati di cui 11 mila ebrei. La prassi era: affamarli e farli lavorare fino alla morte. Ma mio nonno non moriva ancora perché aveva un fisico forte e, siccome sembrava ariano (alto, biondo e con gli occhi azzurri), pensarono di inviarlo a Dachau, vicino a Monaco di Baviera, dove si eseguivano gli esperimenti di congelamento nella neve, poi si tentava la rianimazione: chi non si riprendeva veniva fucilato. Servivano per sapere a cosa andavano incontro gli aviatori tedeschi quando si gettavano con il paracadute. Mio nonno era ridotto pelle e ossa, 40 chili, ma il medico gli diceva di non andare in infermeria perché era l’anticamera del forno crematorio. Quando passavano i militari gli dava una scopa affinché si sorreggesse facendo finta di lavorare. Il 29 aprile 1945 sono arrivati gli americani a liberare il campo: mio nonno ha salvato quel medico dalla fucilazione. Un tedesco dal volto umano su migliaia.

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Elisabetta de Dominis

Elisabetta de Dominis

Detesto confondere la mia vita con un curriculum. Ho ballato e sognavo di nuotare, ho nuotato e sognavo di cavalcare, ho cavalcato, studiato, mi sono laureata mentre facevo la stilista e sognavo di fare la giornalista, ho collaborato con una ventina di testate nazionali, diretto una rivista, ho fatto l’esperta di quasi tutto, dal food al fashion al sex, ho viaggiato e sempre volevo essere da un’altra parte, libera di inseguire l’ultimo sogno.

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