La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili i referendum elettorali. Più che il merito, cioè il contenuto giuridico-istituzionale della legge rimasta in vigore, ciò che pare più interessante è rilevare i fenomeni politici che vi fermentano intorno, l’aria che tira. E questo perché i sistemi elettorali possono essere più o meno sofisticati, più o meno semplici ma, alla fine, o sono più o meno maggioritari, o sono più o meno proporzionali. Sicchè, un accanimento analitico sui vari submodelli risulterebbe noioso non meno che vagamente inutile.
Per quanto qui interessa, chi scrive appartiene a quella minoranza che, nel 1991, votò No ai referendum promossi da Mario Segni.
Per due ragioni: perché il sistema elettorale proporzionale non era per sé fonte di malapolitica, in quanto, suo tramite, erano stati eletti i parlamentari di tutti i partiti, compresi quelli che si autoasseveravano esenti da pratiche clientelari e corruttive.
E perchè i voti di preferenza, constatata la loro neutralità in punto di attitudine criminogena, presentavano una fondamentale virtù: avevano fin lì sollecitato e sollecitavano la formazione di una classe politica autentica (anche negli indiscussi limiti), espressione di comunità geograficamente riconoscibili e, perciò, mandanti di una compiuta e reale rappresentanza politica.
Quel sistema registrava l’effettività di una formazione graduale e progressiva del singolo candidato: costui, proprio perchè doveva suscitare consensi diretti e specifici sulla sua proposta, alternativi e preferenziali non solo a quelli di altre formazioni politiche, ma anche e soprattutto a quelli ricercati dagli altri candidati della stessa lista, mediamente risultava più sperimentato, più esercitato a frequentare il comune cittadino di quanto poi non sarebbero clamorosamente risultati gli esponenti politici maggioritari, mediaticamente costruiti nel chiuso dei vari empirei cortigiani.
Questa diuturna selezione avveniva secondo una costanza di metodo e di iniziativa, che accompagnava la vicenda politica di ciascun rappresentante dalle elezioni studentesche fino a quelle parlamentari. Non c’erano, né ci potevano essere “nominati”. Era, semplicemente, inconcepibile una “base” politica che non avesse una sua originaria e preziosa solidità locale e personale.
Poichè intorno a Segni, ed in nome del “cambiamento”, si erano stretti quasi tutti coloro che avrebbero dovuto essere “cambiati”, benché giovane ed inesperto, di fronte a tanta interessata confusione, che vistosamente richiamava le ancora fresche impressioni lasciate dai “I Viceré” di De Roberto o da “I Vecchi e i Giovani” di Pirandello o dall’universale “Gattopardo” di Tomasi, forse più per reazione che per riflessione, più per snobismo giovanile che per vissuta esperienza, comunque votai no.
Vorrete scusarmi se mi sono inusualmente soffermato su una vicenda anche personale, ma l’ho fatto solo perché mi pare potesse riproporre umori memorie e pensieri, familiari a molti, per lo meno, agli over 35.
Ora è proprio da Segni che si dovrebbe ricominciare. Ma come, non erano le preferenze il male? Fosse solo questo, ci sarebbe semplicemente da stendere il classico velo pietoso. Non è solo questo, però. C’è anche la compagnia (potenza dell’etimo!): che, più o meno, è la stessa di allora. Risparmiamoci la lettura delle paginate scalfariane di quegli anni.
La lobby di Largo Fochetti ha sempre intimamente detestato qualsiasi cosa che assomigliasse, anche lontanamente, alla volontà popolare, al “popolare” in genere. Ha profuso ogni suo sforzo, riuscendovi infine, allo scopo di convertire Partito Comunista ed ampi settori della Democrazia Cristiana in una complessata e balbettante massa di manovra, scissa fra il suo corpo politico schietto, moltitudinario e le lusinghe azionistico-elitarie dei suoi apparenti mentori, in realtà avvelenatori di lungo periodo.
Così, la campagna a favore di Segni, dei referendum “popolari”, nulla condivideva col Popolo e tutto con mire lobbistiche sue proprie, coordinate a precise strategie geopolitiche di matrice anglosassone: le quali, di lì a poco, sull’abbrivio della caduta dei muri e di un “combattentismo” mai sopito, sapientemente sostenuto e governato nelle sue rinnovate spoglie giudiziarie, sarebbero uscite in campo aperto rendendo possibile Tangentopoli: realizzando, cioè, le famose “condizioni” di cui avrebbe poi esplicitamente parlato, fra gli altri, il Dott. Piercamillo Davigo. Il quale, naturalmente, si limitava a registrare la circostanza delle novelle “condizioni”, ignaro di ogni Gioco, grande o piccolo che fosse (Domanda: perché non avete agito prima, in modo così costante e massiccio, contro la corruzione politica, benché il malcostume non sia certo sorto oggi? Risposta: perché “prima” non c’erano “le condizioni”).
Passano gli anni ma non le persone, non gli interessi né i metodi. Quando i contenuti sono irrilevanti, allora non stupisce che, muniti della stessa bolsaggine retorica da sedicenti salvatori della patria, oggi possano essere a favore delle preferenze, la cui mancanza assoggetta il cittadino ai voleri dispotici della leadership politica, proprio gli stessi che, nell’Anno Primo dell’Era elettoral-referendaria, erano stati contro le preferenze, che assoggettavano il cittadino ai voleri dispotici della leadership politica.
Cioè, quando i partiti erano forti, occorreva smidollarli a partire dalla loro intrinseca struttura, fatta di congressi ed elezioni serrate e selettive che si imperniavano proprio sul sistema delle preferenze. Così da sgombrare il campo, cioè l’Italia, da troppo consapevoli custodi. Quando il sistema politico che, grazie alla propaganda del “cambiamento”, si supponeva di poter dominare su base notabilare, con Berlusconi si è invece inaspettatamente reinventato leaderistico e propriamente populistico, ma estraneo a quel progetto di dominio, ecco che si riscopre la virtù della preferenza, e del sistema politico connesso; ecco che torna utile la segmentazione dei centri di comando, che ora si farebbe però solo insulso annacquamento: perché le preferenze senza strutture partitiche reali esprimerebbero solo monadi deboli e anodine.
Allora c’era la speculazione sulla lira, e occorreva vendere e svendere, e qualcuno comprò; oggi c’è lo spread, e occorre vendere e svendere, e qualcuno comprerà.
Perciò il buon Massimo Giannini, vicedirettore di “Repubblica”, può sermoneggiare su legge elettorale e Corte Costituzionale come se nulla fosse: “Un brutto giorno per la democrazia… si deve comunque rispetto per il verdetto della Corte… Certo, è una "sentenza politica", ma come lo sono tutte quelle che interpretano le leggi… è possibile che ai margini abbia influito sui giudici un condizionamento meta-giuridico..”.
Sentenza politica, condizionamento meta-giuridico. Anche con le virgolette, anche con simili circonlocuzioni, salta evidente la smaccata convergenza con le solo più sgangherate illazioni, su ombre presidenziali e interferenze, biascicate dall’ineffabile Di Pietro: emblema di quella deteriore stagione trasformistica, la più ampia, la più profonda, la più cancerosa nella storia dell’Italia unita, promossa da “Repubblica” &C., ed emersa proprio alla confluenza di Segni e Mani Pulite.
Uno quasi non ci crede, se pensa a quello che fu scritto quando identiche affermazioni vennero pronunciate a margine delle sentenze sui vari “Lodi”: Schifani, Alfano, Alfano bis. Il merito, ancora una volta, non c’entra: se si ammette che possa esservi stato un “condizionamento meta-giuridico”, delle due l’una: o si può rispettosamente dire, o non si può categoricamente dire. Ma così non pare sia, secondo i Nostri. E’ il mercimonio impudico della parola, la iattanza postribolare e militante.
C’è sempre un’Italia migliore “che può”, e un’Italia peggiore “che non può”. Un’Italia che evade le tasse e un’Italia che le paga. Un‘Italia democratica e un’Italia non democratica.
“…sdegno mi fero i mille, che tu vedi un tanto nome usurparsi, e portar seco in Pindo l’immondizia del trivio, e l’arroganza, e vizj lor…”. Alessandro Manzoni, “In morte di Carlo Imbonati”. Certe cose non finiscono mai.