Il keniano Geoffrey Mutari taglia per primo il traguardo della maratona di New York 2011
Cos’è la New York Marathon? Bella domanda. E’ certo una corsa, una festa, forse pure una moda. E’tutte queste cose, probabilmente. Lo è per chi vi prende parte, per chi vi dedica la dedizione degli allenamenti, la speranza del risultato, unico e intimo: dal primato della gara, per il vincitore Geoffrey Mutay, al suo eroico completamento, in quattro, cinque, sei o sette ore, per ognuno dei magnifici quarantasettemila del Verrazzano. E’ anche un evento cool, di cui cingere smancerie, con cui costruirsi personaggi al bar del paese,
nel salotto in cui entrare come un dio greco.
Ma c’e un anima profonda, e autonoma sia dalla dimensione podistica che dalla vanità mondana, che si soffonde a rendere questa maratona “la maratona”. E’ l’anima di New York, è l’anima dei newyorkesi. Cento pionieri, visionari e un po’ bislacchi, come tutti i pionieri, nel 1970 decidono di correre per il Central Park; sembra una cosetta iniziatica, destinata a non superare la soglia di una pensata fra amici; e invece diventerà il luogo di una moderna mitologia. E la città ne adotterà lo spirito, ne favorirà la crescita, ne custodirò il primato.
La stessa città martire del 2001, la stessa città epicentro nel 2008 del too big to fail.
Grande sempre, nella virtù e nel vizio.
Questa grandezza è ricercata, e quasi liturgicamente riconosciuta da chi viene a correre a New York, da chi, in questo modo, per un giorno sente di riceverne per sé, solo per sé, una piccola parte, anche solo un riverbero.
Sommamente è quello che accade con gli italiani, la comunità più numerosa a corrervi dopo gli statunitensi, è la loro simbiosi con “la maratona”: le vogliono bene, come molti di loro, dei loro cari, vogliono bene alla città che li ha sfamati e li ha accolti nel corso dei decenni. Ma è un amore reciproco. Verso chi la popola, la festeggia, costellandola dei suoi passi, attraversandola metro per metro.
Per esempio: io domenica scorsa mi sono ritirato, per la prima volta nella mia vita podistica. Il nostro corpo ci esalta e, a volte, ci tradisce. Funziona così. Una dissenteria la notte prima della gara aveva detto no. Ho spinto fin dove ho potuto, poi sarei andato in mare aperto, senza sali, senza ferro, disidratato. Sarebbe stato l’inizio di un’aberrazione.
Invece la corsa è un’arte, fatta di metodo, studio, razionalità e amore. Ma, una volta fermo, l’amarezza e l’avvilimento mi stavamo sovrastando.
Poi i ragazzi sorridenti e splendidi del punto di soccorso mi danno una coperta, una pacca sulla spalla, mi accudiscono come un bambino a cui si è rotto un giocattolo, lievi ma consapevoli che il gioco è importante, non è un trastullo. Mi danno un biglietto della metropolitana, vincono amichevolmente il mio stordimento e si assicurano che abbia capito le indicazioni, poi mi congedo e torno in albergo.
Per strada, solo e abbattuto, ancora sorrisi, “Congratulations!”; io spiego che mi sono fermato e, allora “Don’t worry, the next year you’ll get it!”. In metropolitana per poco non svengo: un ragazzo latino passa la sua tessera, vedendo che la mia non funzionava e si assicura che prenda il treno giusto. Dentro, sfinito ed esangue, due signori, una coppia molto wasp, mi offrono un posto a sedere. La signora mi porge una bottiglietta con l’acqua, e ancora sguardi compresi e auguri per la prossima. Sono così a pezzi che riesco solo a ripetere “Thank you, so kind! Thank You, so Kind!”. Penn Station. Commosso, deluso, finalmente arrivo in hotel, il mio traguardo 2011.
Tutto questo è unico e irriproducibile altrove: tutto questo è La Maratona di New York.