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October 11, 2011
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OCCUPY WALL STREET/ Un Columbus Day diverso

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 5 mins read

 

Bambini a Zuccotti Park disegnano cartelli per "Occupy Wall Street" (Foto Louis Vaccara)

Ieri non sono andato sulla Quinta Ave. Dovevo venire al giornale, avrei fatto pure in tempo a vedere la sfilata del Columbus Day, ma ho deciso di puntare su Downtown Manhattan, e portarci anche la mia famiglia a “Occupy Wall Street”. La sfilata italoamericana avviene ogni anno ed è sempre la stessa, così ho detto ai mie figli, 14 e 13 anni, che quello che stava accadendo da 23 giorni a Zuccotti Park (Broadway & Liberty St) potrebbe invece essere un avvenimento di portata epocale, come lo fu quel viaggio di Colombo del 1492. Anche mia moglie, di solito mai attratta dagli eventi affollati, non vedeva l’ora di andare per rendersi conto, senza filtro dei media, cosa stesse avvenendo dal 17 settembre accanto al tempio della Finanza mondiale.

Quel giorno non era stato scelto a caso, il 17 settembre si celebra la ratifica della Costituzione americana. Centinaia di cittadini mobilitati via internet si erano dati appuntamento Downtown Manhattan rispondendo all’appello “Occupy Wall Street”. Poi, da centinaia sono diventati migliaia e da giorni occupano un piccolo parco che, a fatica, li contiene giorno e notte.

Sono arrivato col “NYPD Press” in vista, mentre mio figlio ha cominciato subito a scattare foto, mentre mia moglie e mia figlia facevano a gara a indicare i cartelli con le scritte più “catchy”.

Il primo che vedo è proprio quello che sintetizza lo scopo della protesta: “Wall Street Occupy our Government, We Occupy Wall Street”. Hanno accusato questo movimento di non avere le idee chiare, ma questo cartello dice tutto: i cittadini si mobilitano affinché le decisioni di chi ci governa a Washington non siano più controllate dall’1% di super ricchi che dominano Wall Street, ma da noi che siamo il 99%. e che li eleggiamo. Gli americani si vogliono riappropriare della loro democrazia.

Ecco altri slogan, sono centinaia, sul taccuino mi finiscono questi: “Where is the accountability/ Stop the Greed!”. “People Before Profit”. “Wall Street Must Die so That Main Street can Live”. “End Debt Slavery”. “The Land of the Free, Blind and Led by the Banks”. Eccone uno che parla delle triangolazioni incestuose tra WS, Washington e la Cina: “Borrowing Trillions from Communists to Pay for Capitalist Greed”. E poi quello scritto tre secoli fa da Thomas Jefferson: “When Injustice Becomes Law, Resistance Become Duty”.

Sotto accusa sono tutti, compreso il presidente Obama che avrebbe tradito il suo mandato. Un cartello ormai ha superato il suo slogan elettorale: “Rebirth not Change”. “Revolution” è la parola che eccheggia in tanti cartelli così, da sola.

 

Chi sono quelli che hanno occupato Wall Street? Hippies? Vagabondi nullatenenti? Certamente non mancano i capelloni, i figli dei fiori. Ma accanto anche tanti giovani studenti, come Rose, una biondina di venti anni, arrivata dalla Suny vicino Albany e che sta dietro al banchetto che da informazioni e distribuisce volantini ai giornalisti: “Vado via tra due giorni, ma torno, sicuro. Sono qui perché sentivo che fosse un dovere farlo”. Ma chi ti ha detto di metterti a lavorare in questa postazione, insomma chi decide chi fa cosa? “Nessuno, mi sono svegliata stamattina, ho visto che qui erano pochi e ho detto se avevano bisogno di una mano. Ed eccomi qui. Domani aiuterò da qualche altra parte”.

Non hanno un leader, non ne vedo mentre giro tra la folla a malapena contenuta nel Zuccotti Park. Gli “occupanti” si gestiscono i compiti attraverso la loro assemblea quotidiana, chiamata appunto la NYC General Assembly (per altre informazioni guardare il sito nycga.cc).

Parlo con una anziana e distinta signora, Nora, che ha un cartello che dice: “Stop Immigrants Imprisonment”. “Sì, sono qui per lottare per i diritti degli immigrati, che vengono arrestati e messi in galera senza rispetto dei loro diritti”. Ma che c’entra Wall Street con le politiche sull’immigrazione? “WS e Washington sono connesse. Io porto la mia causa all’attenzione degli altri”. Anche lei una immigrata? “No, sono nata e abito qui a New York. Svolgo volontariato nelle prigioni dove vengono rinchiusi gli immigrati”.

Altri inneggiano ad altre cause, come quella ambientalista. Janet, una signora che sembra uscita da Wall Street, parla pure un po’ italiano, nel suo cartello dice che siamo all’inizio della fine delle forniture di petrolio: “Il prezzo del petrolio schizzerà in alto e ci porterà al disastro. Dobbiamo tagliare subito la nostra dipendenza da questa fonte di energia”.

Una cucina da campo improvvisata, che smista il cibo donato, freneticamente lavorano per i manifestanti che si mettono disordinatamente in fila per il pranzo. E poi ecco la sorpresa più grande: bambini, tanti, tantissimi bambini, anche molto piccoli, delle scuole elementari vicine, che oggi non hanno scuola ma che le madri e con le insegnanti hanno portato a Zuccotti Park per testimoniare la solidarietà con “Occupy Wall Street”. “Siamo qui con i nostri figli perché vogliamo che imparino subito le ragioni della solidarietà e della partecipazione per le cause giuste”, ci dice Toni, una giovanissima mamma che ha portato due figlie, di cui una ha appena un anno.

Quello che sta accadendo a Wall Street si sta espandendo in varie città americane, ed è ormai un movimento che nasce dal basso e che punta a scuotere le alte sfere del potere in America. Prima le manifestazioni, negli Usa come in Europa, si giudicavano sui numeri che riuscivano a portare in un solo giorno, con le loro famose “marce”. Meno di centomila persone, ed era un fallimento. Ma oggi, Columbus Day, non ci sono centomila persone a Zuccotti Park, non ci entrerebbero neppure. Ma c’è uno stato di occupazione permanente, come a Tahir Square al Cairo. È sulla resistenza e tenuta della protesta e all’attenzione che questa durata saprà attrarre nei media, che si determineranno gli effetti su Washington. Tra cinque giorni, “Occupy Wall Street” compirà un mese. Dopo quella soglia, questi studenti, pensionati, disoccupati o occupati sempre più preoccupati, potrebbero ridare una carica alla democrazia americana capace di deviare, ancora una volta, la storia del mondo. 

 

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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