Nel 1939, Winston Churchill definì la Russia “A riddle wrapped in a mystery inside an enigma”. La definizione può essere estesa a molti dei paesi che hanno sofferto l’occupazione del comunismo sovietico, assorbendone cultura politica e paranoie. Sono nazioni che devono uscire dal doppio trauma della dominazione straniera e del regime comunista e che, pensando di curarsi, si trovano ad essere nazionaliste in politica estera e illiberali in politica interna. Adottano le due ricette che, nel pieno della belle époque del Novecento, infilarono l’Europa nell’imbuto delle guerre civili e poi nel tritacarne della Seconda guerra. I membri dell’Unione europea, che vengono da ben altro percorso, trovano questi comportamenti incomprensibili, in contraddizione con la scelta di aderire all’Unione e di seguire il percorso che Francia Germania e Italia iniziarono sei decenni fa.
Essere nell’Ue mal si lega con nazionalismo e illiberalismo: l’acquis comunitario spinge in direzione opposta. Serbia e Croazia nel nome del nazionalismo anti-ottomano accesero la miccia balcanica dando spazio politico a macellai come Milosevic e Mladic. Polonia e Repubblica Ceca sono stati tra gli ultimi a ratificare il trattato di Lisbona. Sembra che il ceto politico di troppi paesi di nuova democrazia abbia optato per l’Ue per mero calcolo di bottega, senza capire, e tanto meno condividere, il progetto dei vari Spinelli, De Gasperi, Monnet, Schuman, Adenauer, Delors, Brandt. E’ un distacco che l’Ue pagherà caro, come ha pagato l’utilitarismo britannico.
Il ragionamento riguarda anche il paese guida dell’Ue, la Germania della “prussiana” Angela Merkel, spesso indecifrabile nella distanza dalle prassi cui ci avevano abituato gli uomini dell’occidente renano, gli Schmidt, Erhard, Brandt, Kohl. In questa fase evoca specialmente quanto accade in Ungheria, paese molto caro alla generazione che l’ha visto nel ‘56 opporsi ai carri armati del patto di Varsavia, e poi insegnare moderazione ai “paesi fratelli” promuovendo importanti riforme economiche e sociali. E’ stata l’Ungheria, nell’estate del 1989, a consentire ai “turisti” dell’oriente tedesco di fuggire nella Germania federale, aprendo alla caduta del muro a Berlino. Ricordiamo tutti le minuscole traballanti Trabant degli Ossi, cariche di masserizie, posteggiate accanto ai panni stesi sul greto e sugli alberi accanto al Danubio dopo il bagno dei fuggiaschi nel fiume, o abbandonate come rottami alla frontiera austriaca. Per questo spiace seguire gli avvenimenti correnti di Budapest, le modifiche costituzionali del governo di Viktor Orban che hanno ristretto i poteri della Corte costituzionale, conferito diritti politici ai mai sopiti fantasmi razzisti dell’identità etnica magiara, messo in castigo le libertà di stampa e di espressione.
Nell’Ungheria odierna lo stato sociale viene accantonato, scompare il principio del giusto salario, la spinta alla giustizia sociale non trova più enunciazione. Si allargano a dismisura i poteri dell’esecutivo e si ridimensionano quelli degli organi di controllo, mentre si confidano alla Costituzione regole per la stabilità funzionale dello stato che tendono in realtà a rendere pressoché impossibile il cambio di maggioranza parlamentare e di governo, tanto più che il controllo dell’esecutivo su televisione e media tende ad essere totale.
Dove possa portare questa deriva se l’è sentito dire recentemente il Segretario di stato Clinton, in visita a Budapest, da intellettuali e oppositori, già vittime del comunismo. Alla vigilia, con squisito gesto di cortesia, l’ospite Orban aveva fatto cancellare il nome di Franklin D. Roosevelt dalla centralissima piazza che ne onorava la memoria e la lotta contro il nazifascismo.