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July 17, 2011
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July 17, 2011
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FUORI DAL CORO/ Chi spinge l’Italia sul precipizio?

di Fabio Cammalleribydi Fabio Cammalleri
Time: 8 mins read

Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti

Sembra tutto chiaro. Logos e pathos sono quelli dell’Ora Grave. L’Italia è sotto attacco, dobbiamo difenderci, la prima difesa è l’unità, tutto il resto viene dopo. Anzi, non viene proprio. Bisogna pagare, tacere e soffrire. L’opinione è unanime: dal barbiere fino al Quirinale, corre di bocca in bocca, di esperto in esperto, di stratega in stratega. Dovremmo quindi acquietarci a vivere l’attacco speculativo come si vivevano le apparizioni delle antiche divinità; terribili, misteriose, ma, in fondo, annunciate: da Giove a Manitù, passando per Thor e Odino. Rincantucciati e confusi. Qualche ardito potrebbe anche sperare; ma niente di più. Che nessuno provi soltanto a cercare risposte semplici e, prima ancora, a porre domande semplici, tipo: ma se c’è un attacco, allora c’è un campo di battaglia? O no? E se c’è un campo di battaglia, c’è un nemico? O no? E se c’è un nemico, c’è un obbiettivo? O no? Per certuni sarebbero domande politically incorrect o, peggio del peggio, sarebbero dietrologiche. Dove all’abominio del lessema, torbidamente osceno, si coniugherebbe l’insulsaggine del significato. Ma qui non si tratta di cercare il Lupo Cattivo, ma ipotizzare perché siamo diventati una preda bellica, chi ci attacca, se in Patria esistono quinte colonne. Si tratta cioè di parlare come si mangia. 

Cominciamo allora col dire che l’Euro è la regola di questa battaglia, non l’obbiettivo. L’obbiettivo è geopolitico, di potere, vecchio come il cucco. Ma è una regola farlocca. E’ farlocca perché, sotto la pretesa dell’unità valutaria, ha ignorato le inevitabili diversità economiche dei vari sistemi politici e sociali, ibridando la loro sovranità democratica con contaminazioni tecnocratiche ed amorfe (di cui i parametri di convergenza e la regolazione unitaria del tasso di sconto sono l’espressione più nota). 

Ora si consideri che mai, come da quando l’Euro esiste, il tema del fallimento dei singoli stati è diventato discorso corrente. Con le valute nazionali, le diversità dei singoli sistemi economici si potevano confrontare, e se del caso, affrontare, con politiche economiche non amputate della loro componente essenziale, la sovranità monetaria, con il corollario della gestione del tasso di sconto e delle svalutazioni strategiche. Oggi, tali diversità, pur rimanendo, come è evidente, ben radicate e consistenti, devono sottostare ad un imperscrutabile determinismo metafisico-bancario: risultando trasformate, da caratteristiche economiche tendenzialmente coerenti, dove le criticità potevano diventare punti di forza e viceversa, secondo una connessa libertà di lettura e di gestione bene o male orientata da interne dinamiche democratiche, in bersagli inoffensivi da predare all’occorrenza. 

In questi anni di psichedelico euro-entusiasmo, a quanti osavano avanzare dubbi in proposito, si è obiettato, con degnazione dogmatica, che Maastricht ci ha salvato da un sicuro disastro: disoccupazione, inflazione, tassi di interesse elevati, instabilità dei cambi. E che per l’Italia, certo un paese con quattro milioni di medie e piccole imprese a marchio unico: made in Italy, i vantaggi delle svalutazioni competitive (che, per cinquant’anni, ci hanno aiutato a campare e a crescere) tuttavia sarebbero stati travolti e nullificati dall’annunciato disastro sistemico. 

Fino a quando, nel Marzo dell’anno scorso, Angela Merkel, con piglio luterano, non ha polverizzato lo status di intoccabile, pelosamente riconosciuto a sua divinità monetaria. Senza contare che Londra non ne ha mai voluto sapere. 

Quanto all’attualità delle svalutazioni come strumento strategico fondamentale, basti pensare a quello che tenacemente continuano a fare i cinesi con il loro Renminbi, unanimemente ritenuto svalutato almeno del 27%, anche se alcune stime arrivano al 40%, impedendo ai loro debitori, Stati Uniti in primo luogo, di annacquare il loro debito (un dollaro più debole verso la valuta cinese toglierebbe valore all’oggetto del prestito, cioè al dollaro appunto). Questo per dire che persino in un ambito geo-economico primario, dove è più difficile liquidarla come un espediente di semitruffaldina italica ingegnosità, la cara vecchia svalutazione è lungi dall’essere considerata un arnese da destinare al macero.

Il fatto è che le dinamiche di costruzione dell’Euro furono politiche, non economiche. Ed è stata un’operazione per nulla trasparente. Basti ancora un particolare. Il 13 ottobre 1995, con il Decreto Ministeriale numero 561, il Governo Dini, prodromico al I Governo Prodi, poneva un singolare segreto, fra gli altri, su “atti…che riguardano la posizione italiana nell’ambito di accordi internazionali sulla politica monetaria…”; su “atti preparatori del Consiglio della Comunità europea”; su “atti preparatori dei negoziati della Comunità europea…”; e su “atti relativi a studi, indagini, analisi…” relativi alla “…struttura e [a]ll’andamento dei mercati finanziari e valutari”. Insomma, quanto il Governo stava facendo per realizzare il progetto europeo non si doveva conoscere, men che meno quanto stava facendo in ambito di politica monetaria. Segreto singolare, si converrà, perché, secondo l’ossessiva propaganda allora in voga, si trattava di un parto politico di portata storica; pertanto, appare davvero bislacco che se ne volessero tenere nascoste le meritorie doglie. Doglie poi sfociate nella mitica “Soglia Irrevocabile di Conversione”, 1936.27, con cui venne fucilata la nostra lira. 

A meno che, nella costruzione farlocca dell’Euro non ci fosse dolo, cioè uno studio preordinato. Eventi successivi sembrano confermare l’ipotesi. Nel 2005 la Costituzione Europea venne bocciata da Francia e Danimarca. Il documento, a dirla tutta, consacrava il carattere non democratico ed esoterico-finanziario dell’Unione Europea. Così andò a incontro a sonore bocciature. Allora si decise di aggirare l’ostacolo con un altro trucco, chiamando la Costituzione Trattato: il Trattato di Lisbona. La faccenda era importante perché comportava l’ulteriore esproprio di prerogative nazionali in favore della tecno-struttura di Bruxelles. L’Italia lo ratifica l’8 Agosto 2008. Uno, a quel punto, si aspettava le fanfare, i talk show, tutta la compagnia di giro, insomma; e invece il parlamentare europeo danese Jens-Peter Bonde confessò: “i primi ministri erano pienamente consapevoli che il Trattato non sarebbe mai stato approvato se fosse stato letto, capito e sottoposto a referendum. La loro intenzione era di farlo approvare senza sporcarsi le mani con i loro elettori”; e il nostro Giuliano Amato, uno dei più autorevoli sacerdoti dell’euro-devozione, aggiunse: “Fu deciso che il documento fosse illeggibile… Fosse invece stato comprensibile, vi sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum”. E bravi! Sicchè non solo l’Euro è la regola farlocca con cui affrontare le moderne battaglie di sistema, ma è farlocca, nero su bianco, l’intera Unione.

Allora, se non c’entra la neutralità dei numeri, sarebbe il caso di dirlo e di accantonare l’insopportabile sussiego con cui si è retto il moccolo a questa impostura. O ad impedirlo ci sarà qualche interesse, di quelli trasparenti come l’Euro? Da anni, ormai, la Repubblica agisce in tandem con l’Economist (che anche questa settimana ci ha graziosamente dedicato una copertina augurale: l’Italia, raffigurata come uno stivale sull’orlo di un abisso); ma Bernanke, bontà sua, ci ha tenuto a precisare che “l’Italia non è come la Grecia” (ma va?), mentre il Frankfurter Allgemeine Zeitung dopo avere affermato (insieme a pressocchè tutti gli altri giornali tedeschi) lo stesso concetto su Italia e Grecia, ha poi aggiunto: “l’Italia è diventata un obiettivo degli speculatori anche, o forse soprattutto, per[]…un’insolita alleanza…: da una parte gli investitori e speculatori hanno bisogno di una nuova crisi, dall’altra gli oppositori di Berlusconi sperano in una fine immediata del Presidente del Consiglio italiano”. Dunque, ci sarebbe chi ha bisogno di una nuova crisi, dopo quelle di Irlanda, Portogallo, Spagna e Grecia. E varrà la pena di rilevare che solo nel prossimo 2012, verranno in scadenza tanti bond, pubblici e privati, quanti non se ne sono mai visti nella storia moderna: perché la crisi finanziaria è scoppiata e le toppe sono state messe; ma in che modo? Pagando i debiti del sistema finanziario, affiorati nella crisi del 2007-2008, con altri debiti. In questo delirio mondiale, i più indebitati sono Stati Uniti e Inghilterra.

Ma allora, in uno stato di crisi planetaria, con una valanga di debiti in scadenza, si può pensare che ognuno di questi super-debitori cercherà di accaparrarsi il poco disponibile senza fare troppi complimenti. O è troppo semplice? Magari in nome della genuinità contabile custodita dalle Agenzie di rating?.

Queste, tutte statunitensi, dopo aver rassicurato il mondo, autorevolmente approvando le gestioni di Enron, Parmalat e dell’intera filiera dei subprime, continuano a dar pagelle. Disinteressate e neutre, tutte sul filo del rigore scientifico e contabile, s’intende. E il bello è che funziona. Naturalmente perché se tutti considerano i rating i principali market movers, a prescindere dalla qualità dei giudizi espressi, il sistema continuerà a vibrare con queste corde. Per esempio, Moody’s ha introdotto, fra i sei criteri del suo ultimo giudizio sull’Italia, anche la “instabilità politica”, benchè avesse appena gratificato il Belgio della tripla A, nonostante i sui suoi tredici mesi senza governo. Naturalmente, se mai qualcuno pensasse che, con il denaro e il futuro di milioni di italiani, si gioca alla sporca politica, è lì pronto il debito pubblico a giustificare qualsiasi speculazione (giusta, perché così gli italiani imparano a farsi governare da Berlusconi). Anche se poi il debito aggregato (pubblico più privato) è notoriamente inferiore sia a quello degli Stati Uniti che a quello della Gran Bretagna, con una composizione che vede la quota sottoscritta da creditori interni decisamente maggiore di quella registrata nella struttura degli altri debiti sovrani e, per la parte sottoscritta da investitori internazionali, in presenza di crediti reciproci e omogenei (anche noi cioè, abbiamo in mano i loro bond). Ma questo non si deve dire.

Perché l’Italia è pizza, mandolino e debito. E gli altri? Gli altri ci fanno la guerra. 


 

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