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June 12, 2011
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FUORI DAL CORO/La giustizia venuta dal Brasile

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Time: 6 mins read

Cesare Battisti appena scarcerato  

Delator premiado. E’ in queste due parole che si condensa il nocciolo dell’affaire Battisti. E con queste due parole che il Brasile ci rimanda all’irrisolto grumo dei nostri compromessi: stretti con le nostre coscienze e con la nostra storia recente. Il Brasile ci dice che in Italia Battisti non ha avuto processi legali perché le sue condanne fanno perno sulle dichiarazioni di un “pentito” E’ vero? E’ falso? E’ vero. Le condanne riflettono, in misura determinante, le accuse di Pietro Mutti, compare di Battisti nei PAC (Proletari armati per il comunismo). Non mancano certo dati probatori accessori che, come frequentemente accade nei processi fondati sulle chiamate di correo, valgono più ad imbellettare una cattiva coscienza investigativa che a rinvigorire l’ipotesi di colpevolezza; giacchè, alla valutazione finale del giudizio, risultano frequentemente posticci, equivoci e, perciò superflui, quando non addirittura controproducenti. Così, anche per la condanna di Battisti, quello che conta è che essa non vi sarebbe stata senza le chiamate di correo compiute da Mutti. Fermiamoci al punto. Che offre da solo materia sufficiente per qualche sparuta riflessione.

In primo luogo, negare che un imputato abbia avuto un processo giusto, implica la questione dei parametri. Quando un processo è “giusto”? Per farla corta, quando riflette le regole di formazione della prova di tipo accusatorio, in cui la prova è orale, pubblica, e dialetticamente determinata: cioè sottoposta al controllo dell’imputato che ha la possibilità di fare le pulci a chi ne afferma la colpevolezza. Modello delineato in tutte le Carte fondamentali che hanno formalmente sancito l’esistenza di principi universalmente accettati, fra i quali quello del c.d. Giusto Processo. E il Brasile sostiene che invece in Italia, nella stagione dell’emergenza terroristica, fu varato un sistema “d’eccezione”, fondato sulla figura del delatore che negozia il suo personale armistizio mediante l’altrui libertà, inconciliabile con quei principi. Anzi Tarso Genro, Ministro della Giustizia brasiliano, nel provvedimento con cui concesse asilo politico a Battisti, si è spinto ad affermare che, in quegli anni, in Italia, vi furono contesti investigativi in cui lo stesso ambito dell’eccezione venne superato; vale a dire, in cui la già problematica genuinità degli accusatori fu resa ancor più precaria dal ricorso a pressioni fisiche e morali non coperte da alcuna norma di Legge.

Ora, deducendo che la dichiarazione di un delatore non consente un giudizio di colpevolezza ben fondato, di fatto, si afferma che è impossibile, dovrebbe essere impossibile, sulla base di quella fonte di prova, acquisire certezze in ordine ad un certo fatto. Per certezza s’intende, com’è noto, il canone del convincimento “oltre ogni ragionevole dubbio”, recepito nel Febbraio 2006 anche nel nostro Codice di Procedura penale. Sicchè, sulla base di questo principio, non si afferma né si nega che Battisti possa aver realmente commesso gli omicidi che risultano dalle sentenze definitive. Si sostiene, più semplicemente, che quelle regole probatorie, frutto di una legislazione eccezionale (rispetto alla normalità dei principi accusatori) non consentono certezze, né in un senso né in un altro. E che questo, sulla scorta delle leggi brasiliane sui rifugiati (rifugiati e basta, non necessariamente politici) non permette di concedere l’estradizione. E, sia detto per inciso, Napolitano, mentre si dubita formalmente della civiltà della Repubblica, non poteva, altrettanto formalmente, che assumerne la difesa d’ufficio. Pertanto l’ineccepibile posizione presidenziale, lascia intatte le questioni, culturali, storiche e politiche, posteci dalla vicenda.

Ma se il Brasile, come si dice, non entra nel merito, fermandosi un metro prima proprio perché il mancato rispetto di quei principi ha impedito, secondo le sue leggi, che se ne discutesse legittimamente, non significa che quegli omicidi non vi siano stati, che non siano germinati da un ben preciso fenomeno politico-criminale, che Battisti non ne sia stato parte e che il giudizio su di esso non sia, in Italia, la vera materia del contendere. Eh sì, perché parlando o scrivendo di Battisti, ancora una volta, un certo discorso politically correct parla e scrive di sé e, con Battisti, assolve sé stesso, spingendosi ben oltre la posizione brasiliana. Un Battisti assurto ad emblema di quegli anni, di una certa Italia, di un certo modo di vivere la propria saccenza, la propria propagandata diversità “antropologica”, per riecheggiare certi stilemi ripresi di recente, fra gli altri, dalla Brigata Micromega, e rilanciati sul terreno dell’invettiva antiberlusconiana. Cioè, anche prescindendo dal Battisti imputato e condannato, il Battisti proletario armato per il comunismo è senz’altro colpevole, comunque colpevole: di una storia, di un regresso, di un’epidemia di irreparabili sofferenze, di vite compromesse e spezzate. E’ colpevole culturalmente, è colpevole politicamente, è colpevole moralmente: è cioè gravido della stessa colpa di cui sono incisi tutti coloro che lo difendono non in termini processuali, non facendo i conti fino in fondo con l’imbarazzo bruciante che dovrebbe suscitare quella figura, il delator premiado; ma adducendo fumisterie sulla redenzione letteraria, invocando infami contesti legittimanti, pronunciando pelose e inascoltabili perorazioni sulla necessità del “superamento”. Ma superamento di che? Superamento di chi? Dovrebbero solo chiedere scusa. Per le sontuose carriere maturate al risibile prezzo di una vile scrollatina di spalle, a liberarsi vezzosamente dalle responsabilità di quegli anni. Per il ruolo assunto in nome di un’ignominiosa pretesa di superiorità ideale, di natali, di stile, di abitudini, di frequentazioni: che, allora come ora, tutto giustifica, tutto comprende, tutto spiega, tutto consente; pretesa non seppellita con imperituro disonore, ma, ignominia nell’ignominia, rilanciata con protervo compiacimento. Per gli appelli apologetici (da Calabresi in poi). Per la diffusione di una libidine distruttiva verso l’italiano medio, piccolo-borghese, clerico-fascista, familista-amorale, bottegaio, evasore fiscale e puttaniere, of course. Ecco perché la questione dell’estradizione è mal posta: ancora una volta, si finge di ignorare qual è la piaga purulenta che fende la carne dell’Italia. La questione è proprio la presenza di questi replicanti impuniti: la quasi totalità della sua classe intellettuale e di buona parte della sua classe dirigente; il suo passato; la sua legittimazione storica, culturale e morale; la sua spiccatissima attitudine alla manipolazione, l’indignarsi per Battisti condannato dopo aver strusciato col Battisti proletario armato per il comunismo; l’intestarsi battaglie di principio mentre i principi quotidianamente massacra. Come per le brutture processuali, come per le iniquità probatorie, come per le incivili prassi custodialistiche. Quelle stesse che, fin dal processo 7 Aprile (a carico di Toni Negri e Potere Operaio), passando per Mani Pulite, ci sono valse dure censure di Amnesty International, per toni e contenuto, equivalenti a quelle espresse su Guantanamo, Corea del Nord, Cina e compagnia cantante.

Ma, a quanto pare, non è solo il culturame sinistrorso a coltivare la miserabile attitudine del “noi” e del “loro”. Infatti la scelta del Brasile, la sua volontà di condannare, per principio, il delator premiado, di correre il rischio di lasciare processualmente irrisolti efferati omicidi, pur di non legittimare viscide negoziazioni e, con esse, l’inaccoglibile mercanzia condannatoria che ne costituisce il frutto marcio, svela, a quanto pare, nell’area aspirante liberal-democratica, una parallela incapacità a difendere, sempre e comunque, i principi fondamentali della nostra civiltà. Anche, e soprattutto, quando i singoli, contingenti, attori di una disputa siano, per altri versi, espressione di un mondo quanto mai remoto e inviso alla propria visione delle cose. Alla Voltaire; alla Sciascia. Ma come? Non si accorgono nel Centro-Destra che la vicenda Battisti, nei termini in cui è stata posta dal Brasile, ci interroga non solo sull’origine storica di quei “sistemi d’eccezione”, ma anche sulla loro evoluzione, sulla loro stabilizzazione, sull’assetto processuale, ordinamentale e sottoculturale che oggi ne costituisce la stabile filiazione? Sulle battaglie di “supplenza democratica” che quel sistema ha potuto svolgere? Sulle abitudini, quasi sull’acquiescenza (a questo punto si può dire) che ha saputo determinare? Che il viscidume processuale verso cui il Brasile ha pronunciato il suo vade retro è lo stesso che è stato agitato, e tuttora si agita intorno ai processi per le c.d. contiguità politico-mafiose: da Mannino, a Musotto, a Carnevale, a Mori (I capitolo), ad Andreotti (al cui proposito, anche volendo cinguettare sulla parziale prescrizione, ombra incancellabile sull’assoluzione dell’ipotesi mafiosa, resta la lieve accusa di omicidio, presa a calci dalla Cassazione)? Lo stesso che alimenta una protesta di legale vessazione nei confronti del Senatore Dell’Utri; che attraversa le inquietudini sul fenomeno Ciancimino, sulle ricerche perenni di origini statutariamente mafiose e stragiste di Berlusconi? Ma dove guardano? Ma di che parlano? Guardano alla mediocre parzialità della fazione, allo sminuzzare i principi in ragione delle convenienze di una gretta e miseranda contingenza politicante. Ecco dove guardano. Come il culturame di sinistra. Non a caso si registra un’inedita convergenza fra la lobby di Repubblica, ben attenta a proteggere l’ordigno inquisitorio da ogni improprio accostamento storico-normativo e il Centro-destra in allure legaiola, istupidito da una foia manettar-combattentistica, dimentica di giusto processo e strapotere dei magistrati. Vai a vedere che Santoro ha capito tutto. Anno zero.   

 

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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