Com’era a questo punto prevedibile Giuliano Pisapia è il nuovo sindaco di Milano. Meno prevedibile, ma non sorprendente che Luigi De Magistris sia quello di Napoli. Semmai potrebbe meravigliare la misura dei consensi: il 65%. Tuttavia, poiché a Napoli hanno votato circa il 50% degli aventi diritto, il dato, sul piano sociale, si ridimensiona, rimanendo clamoroso su quello politico. Vale a dire, giacchè a Napoli ha votato per il neo-sindaco un cittadino su tre, tutte le sparse valutazioni su sommovimenti, riscosse e liberazioni appaiono destinate a rimanere sull’effimero terreno della propaganda; infatti, più o meno, i voti a favore dell’ex magistrato riflettono l’area di consenso propria della Sinistra e confluita da tre direzioni: dalla militanza del Partito Democratico, da quella della Sinistra vendoliana, e dal fermento di opinione umoral-qualunquista che si riconosce nell’Italia dei Valori: componente più fluida e non organizzata in modo tradizionale come le prime due. Sicchè, i conti tornano. Ma senza sobbalzi. Dove non sono tornati, com’è noto, è nel Centro-Destra. Incapace di sottrarsi a candidature che sembravano fatte apposta per dirottare il diffuso malcontento, accumulatosi durante quasi vent’anni di giunte di Centro-sinistra, verso aree di rappresentanza ambigue e scivolose. Si possono sommariamente segnalare due conseguenze del voto a Napoli; una di carattere generale, una più direttamente pertinente alla Sinistra.
Quella generale dice che è stato convalidato un metodo, giunto ad un preoccupante stadio evolutivo. E che il metodo ha trovato un simbolo. Il simbolo incoronato è costituito da una creatura mediatica che, come il suo più noto collega di partito, Antonio Di Pietro, sembra sia diventato personaggio pubblico di rilevanza nazionale in ragione del suo ruolo istituzionale di Pubblico Ministero; ma, e qui è la novità, a differenza di costui, non solo non può vantare una storia personale segnata dalla plasticità di indagini efficacemente condotte (come furono rese efficaci, è un altro discorso) e approdate e convalidate da sentenze definitive (il processo Cusani su tutte); non solo, quindi, non ha raggiunto notorietà e seguito dopo una stagione di reale incidenza sulla vita sociale, politica e culturale dell’intero Paese; e Tangentopoli, quale che ne sia l’opinione al riguardo, è stato il fenomeno politico più rilevante e dagli effetti politici più vasti del dopoguerra. Ma De Magistris, al contrario, è venuto alle cronache in grazia di un percorso professionale tormentato e segnato da una singolare quanto continua serie di smentite processuali, e, per questo, assolutamente carente di reale impatto anche solo su limitati e parziali aspetti della vita sociale e politica italiane. E allora come è potuto accadere che un singolo individuo, fin lì pressoché ignoto fuori dello stretto ambito professionale d’origine, nel breve volgere di un anno abbia acquisito un ruolo e una veste spendibili politicamente? E che così, esclusivamente su quest’abbrivio, sia stato prima eletto al Parlamento Europeo, quindi abbia battuto alla primarie il candidato della Sinistra tradizionale, ed infine sia diventato il Sindaco della terza città d’Italia?
Per creare, letteralmente, questo soggetto politico, è bastata la sapiente sceneggiatura di Santoro e Travaglio, suoi autentici mentori, imperniata su non meglio precisate ostilità massoniche e su ancora meno precisati poteri forti (si ricorderà che la più celebre delle sue inchieste, Why Not, avrebbe lambito anche Romano Prodi). In questo modo, il nostro, nel giro di alcune puntate di Annozero, di concerto col decisivo padrinato del Gruppo Repubblica-Espresso, è stato incorniciato dall’aureola del martirio civico e si è volto a scaldare cuori derelitti e a dissetare moltitudini arse dal desiderio di bene e giustizia. È stata una dimostrazione di potenza inaudita. Segna la capacità produttiva di un sistema mediatico che, senza neanche doversi preoccupare del loro reale sostrato storico, può istituire soggetti politici. Questa la procedura. In primo luogo, dissimula il processo creativo sotto le mentite spoglie di una doverosa e neutrale lettura di fenomeni sociali, semplificati e perciò modellabili a piacimento: “la” camorra, “la” politica collusa, “la” disoccupazione ecc.. Su questo sfondo narrativo, viene quindi innestato il desiderio, altrettanto manipolato e semplificato, di una società più giusta che elimini radicalmente e rapidamente disuguaglianze e storture, in cui è implicito che chi desidera ha titolo per farlo. Questo avviene con tecniche di comunicazione rudemente impressionistiche e tali da sterilizzare il rischio di una disamina meditata e argomentata: l’urlo di una madre disperata; o il volto perennemente oppresso dei disoccupati; o infine, una ricostruzione, ritmata come una fiction, di monconi investigativi sottratti alla sede propria e impiegati in chiave spettacolare.
Quindi, dopo aver creato il soggetto politico, lo si provvede di una storia spendibile, mediante un’abile illusionismo: si valorizzano i termini della realtà che più potrebbero indebolirne il profilo, invertendone la lettura logica: l’azione investigativa dirompente, che non c’è stata, è dirompente proprio perché non c’è stata, e la persecuzione del suo autore, invero censurato dal CSM per l’improprietà delle sue condotte, è una persecuzione proprio perché mascherata da forme legittime; e si coordina simile storia “al contrario” a quella domanda di “narrazioni” di cui si conoscono entità e codici espressivi (avendo contribuito in modo determinante alla loro stessa esistenza).
Un tale processo creativo si sostituisce, così, al vissuto delle dinamiche sociali e democratiche, magari confuse e parziali, ma che hanno sempre legittimato l’imporsi di una soggettività politica alla scelta dei cittadini. In altri termini, la scaturigine realmente sociale e democratica della politica viene nullificata. Per Di Pietro vi era pur sempre stato il sistema delle imprese che si voleva soggiogato dalle tangenti e un insieme di partiti politici impantanati in un crepuscolo di inefficienza, sperimentabile nella pratica quotidiana di ognuno, quale reale presupposto che spiegava l’affermarsi di un’icona; e il correlativo moto repressivo, parimenti reale ed efficace, restituiva effettività e percepibilità all’icona medesima.
Dinamiche sociali e democratiche, allora, significano che la realtà partorisce altra realtà. Creatura mediatica significa che il virtuale partorisce il reale. Nel caso di De Magistris, esattamente, il virtuale ha partorito il reale. Uno studio televisivo ha creato una realtà politica. Questo processo creativo si è potuto imporre nonostante la specifica connotazione propagandata, cioè la conduzione di indagini “antisistema” e l’ostracismo di potentati oscuri e “forti”, sia rimasta su uno sfondo di unilaterali e indimostrate asserzioni; tuttavia, la contraria ripetizione mediatica della loro esistenza ha prevalso sulla realtà e, assolvendo ad una funzione mitologica, ha fondato il carisma del personaggio.
Ammesso che esista un berlusconismo come metodo dell’irrealtà prevalente sulla realtà, l’elezione di De Magistris ne celebra il trionfo. Con una precisazione, però. Quando l’irrealtà di un mondo dorato si disvela, rimangono la vita di ogni giorno e la delusione: la colpa risiede nell’inerzia e nell’inadempimento di una promessa. Quando si scoprono meriti virtuali, rimane il reale potere di manomettere la libertà personale ed economica di ognuno, richiamato come fondamento e di cui ci si pone quale simbolo. La colpa risiede nell’azione e nella realizzazione di una minaccia.
Veniamo così all’altra conseguenza del voto napoletano. Quella riguardante più direttamente la Sinistra. Per ora si è registrata una vistosa convergenza, fra le componenti tradizionali e tradizionalmente organizzate della Sinistra e quella fluida, non territoriale e nondimeno potente, costituita dal virtuale mediatico che si fa realtà politica. Solo che politica comporta, oltre che conflitti verso l’esterno, verso gli avversari, anche conflitti verso l’interno, con gli alleati per stabilire la supremazia. E se è bastata, per istituire un’identità politica, l’affermazione mediaticamente inflessibile, dello specchio di una realtà, sarà giocoforza proseguire lungo questa stessa strada per imporre strategie e linee politiche. Insomma, per stabilire chi comanderà a Sinistra. Bersani e Vendola per ora si giovano delle magie di Repubblica e Santoro. Ma poi? Nel discorso semplificato e violento di questo ordigno mediatico, da anni ormai D’Alema, se solo si sfiorano questioni sulla magistratura, è guardato come un gemello di Berlusconi, e di recente, anche Violante, dico Violante, è passato all’indice di Travaglio. Nei giorni dell’affaire Unipol-Antonveneta, il povero Fassino fu messo sulla graticola per una legittima esclamazione di giubilo (“abbiamo una banca!”) e, contro di lui, Report della scorsa settimana ha presentato la sua elezione ponendo in primo piano la ritenuta tossicità politica di Giusy La Ganga, ex deputato e dirigente del P.S.I. di Craxi, candidato del centrosinistra a Torino. Se ne saranno accorti, Bersani & Co., che il tempo è scaduto?