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Nella foto in alto, i corpi delle vittme giacciono in strada dopo l’incendio. In basso, i vigili del fuoco tentano di estinguere l’incendio.
ll 25 marzo 1911, in Greene Street (Washington Place), alla Triangle Shirtwaist Factory, finisce in mezz’ora tra le fiamme la vita di centoquarantasei ragazze: hanno tra i quindici e i ventitre anni, e provengono per lo più dall’Italia o dall’est europeo. Sono state arruolate per produrre camicette strette in vita, come dice il nome del laboratorio. Le scale dei pompieri non vanno oltre il sesto piano, ma le giovani lavorano all’ottavo e al nono. Mancano gli idranti interni e le uscite di sicurezza sono inagibili. Donne con i vestiti e i capelli in fiamme provano a salvarsi dai davanzali, grazie a una collega che alla fine le seguirà cercando scampo nel vuoto. I cadaveri vengono ammucchiati sul marciapiede tra la strada e la piazzetta.
Riflettere su quanto accadde, aiuta a capire quale fosse un secolo fa la condizione delle donne immigrate a New York e negli Stati Uniti.
Inequivoca la testimonianza dell’ultima tra le sopravvissute del gruppo di operaie, Rose Freedman, scomparsa dieci anni fa a Los Angeles, proprio di marzo, a 108 anni. La donna ebbe più volte occasione di spiegare che alla factory le porte erano sempre chiuse, perché i proprietari temevano che le ragazze rubassero o andassero a spasso durante le pause pasto. Fu così che la scala antincendio crollò per l’eccesso di peso delle fuggitive.
Rose amava evidenziare che, nonostante i titolari avessero lasciato serrate le uscite di sicurezza e si fossero rifugiati da soli sul tetto infischiandosene delle lavoranti, furono assolti da una corte che rifiutò gli argomenti dei più deboli. Assicurazione e proprietà architettarono un marchingegno legale ma ingiusto: per ogni vittima furono consegnati 445 dollari alla ditta, perché ne stornasse alle famiglie 75. La paga delle operaie era di 7 dollari a settimana, dal che si deduce che per i padroni di Triangle Shirtwaist la vita di operaie ventenni equivaleva alla misera retribuzione di dieci settimane di lavoro. Unica nota positiva di una vicenda che segnò uno dei punti più bassi del sistema giudiziario e politico americano, fu che si generarono così tante proteste, e lo sdegno fu tale che in un paio d’anni le autorità dovettero aggiornare le norme della sicurezza sul lavoro.
Le ragazze di New York, specie le immigrate, all’inizio degli anni ’10 erano ben lontane dal modello delle Flappers, le girls volitive e alla moda che, nel successivo decennio, si sarebbero imposte per come si truccavano, fumavano in pubblico, ballavano e bevevano nei locali notturni. Louise Brooks e il suo caschetto non facevano ancora tendenza. La prima dichiarazione dei diritti delle donne aveva più di sessant’anni, 1848. Il voto della Seconda Internazionale al Congresso di Parigi sul diritto della donna al lavoro e alla pari retribuzione, era del 1889. Le suffragette avevano iniziato da un lustro, in America ma anche in Inghilterra e Francia, a rivendicare il voto al femminile. Nel 1910 la Conferenza internazionale dei movimenti femminili (Internazionale socialista), riunita a Copenaghen, aveva chiesto si celebrasse ogni anno la Giornata della donna (verrà legata alla rivolta delle donne di Pietrogrado, prologo della rivoluzione, dell’8 marzo 1917).
Le ragazze di Triangle Shirtwaist si ritroveranno, involontariamente, tra le icone di un movimento globale che avrebbe mutato la condizione femminile. Tre anni dopo l’eccidio di New York, manifestando a Londra, una suffragetta scagliò due sassi contro le finestre di Buckingham Palace. Su uno c’era scritto: “Se una delegazione costituzionale è respinta, noi dobbiamo presentare un messaggio di pietra”. Troppo tardi per insegnarlo alle sfortunate ragazze di Greene Street.