Il nome “prosciutto” affiora da una radice antica che dice già tutto: asciugare, togliere l’umidità, conservare. In questa essenza linguistica si ritrova l’anima di un prodotto che ha fatto della lentezza la sua forza e del territorio la sua firma. Il Prosciutto di Parma nasce infatti soltanto in una specifica porzione collinare dell’Emilia, dove i venti del mare si incontrano con l’aria degli Appennini in un equilibrio impalpabile, ma decisivo. Questo legame con l’ambiente non è decorativo: è vincolante. Nessun’altra zona può replicarlo. Nessuna scorciatoia è ammessa.
A confermare questa visione è Paolo Tramelli, Marketing Manager del Consorzio del Prosciutto di Parma, che abbiamo incontrato tra gli stand di Eataly USA In occasione del Summer Fancy Food di New York. “Il nostro compito è trasmettere non solo un prodotto, ma una cultura,” ci ha raccontato, sottolineando l’importanza del contatto diretto con operatori e consumatori per rafforzare la percezione di autenticità. “Negli Stati Uniti, oggi nostro primo mercato estero, lavoriamo per formare chi vende e serve il prosciutto, perché la qualità va anche raccontata.”
La denominazione DOP (Denominazione di Origine Protetta) non è quindi solo un marchio, ma “un patto tra prodotto, luogo e tradizione”. Il Consorzio del Prosciutto di Parma, custode rigoroso di questo patto, riunisce oggi 127 aziende, ognuna responsabile di seguire un disciplinare che esclude additivi, conservanti, nitrati. Solo coscia di maiale, sale e pazienza. Almeno 14 mesi di stagionatura, e nemmeno un giorno meno.
“Nel 2023, la produzione ha sfiorato i 7 milioni di prosciutti, con un export pari al 38%. Gli Stati Uniti sono diventati il primo mercato estero, superando Francia e Giappone. Un risultato frutto di investimenti continui, campagne educative mirate e di una promozione costruita sul rispetto per l’identità”, – ha puntualizzato Tramelli – “Oggi il Prosciutto di Parma negli USA non è solo un prodotto gourmet: è simbolo di autenticità e di uno stile di vita italiano”
Dietro ogni fetta, c’è una geografia e una cultura, dunque. E la consapevolezza che, in tempi in cui tutto accelera, saper aspettare resta un gesto rivoluzionario.