Dopo aver disceso il Rio Yumuri io e Simone eravamo carichissimi e pronti ad affrontare l’ultima tappa della nostra esplorazione dei fiumi di Cuba. Avevamo già fatto un buon rodaggio tra le rapide ed eravamo fiduciosi del fatto di poter contare su B, con la sua rete di collaboratori, per passare sulla strada militare che porta sul Toa.
Il nostro amico infatti si era informato bene e aveva trovato un contatto fidato a La Planta, un gruppetto di capanne a circa 15 chilometri a ovest della foce del Toa, in cui vivono solo campesinos abili nel costruire zattere di bambù, coltivare la terra con platani e cacao e pescare. Un luogo perfetto per preparare la discesa al riparo da occhi indiscreti e per ammirare un popolo in perfetta simbiosi con l’ambiente fluviale.
Il giorno della partenza da Baracoa per il nostro blitz sul fiume, immaginato come una toccata e fuga di 24 pre, abbiamo caricato provviste e acqua su un’auto procurata da B, siamo andati a cercare delle “pagaie” in un magazzino appena fuori città (trovando solo mezzo remo da barca e un tavolaccio) e, secondo i piani, abbiamo imboccato la strada che costeggia il fiume.
Ci siamo quindi lasciati alle spalle la base militare e il ponte Neblina, il rudere dove eravamo stati bloccati dalla polizia durante il primo tentativo, alcune settimane prima. Nessun poliziotto in strada stavolta. Le possibilità di trovare dei militari sul percorso non erano tuttavia da sottovalutare.
A bordo del Titanic
Arrivati a La Planta, B. ci ha portato da un campesino, un omone alto e muscoloso da far paura, che era stato avvisato per tempo del nostro arrivo e aveva già tagliato una decina di grosse canne lunghe quasi otto metri. In poche ore siamo riusciti a metterle insieme con del cordame di scarsa qualità comprato a Baracoa, fino a dar loro l’aspetto di una zattera.
Dopo Penelope, la nostra nuova imbarcazione non poteva che chiamarsi Titanic, che forse non è un nome che porta bene, ma a noi piaceva…
Il nostro Titanic era davvero enorme, ma sembrava anche solido e stabile. Siamo partiti più o meno a mezzogiorno sulle acque del Toa, a volte placido a volte nervoso.
In tre, con due pagaie e un palo per governare l’imbarcazione, abbiamo faticato parecchio prima di capire come timonare (io), remare (Simone), spingere senza auto-impalarsi (B.).
Il paesaggio era semplicemente meraviglioso. La foresta era fitta e rigogliosa e in lontananza si poteva intuire la forma del bellissimo Junque, il promontorio che svetta sulla baia di Baracoa. “Nessuno straniero ha mai navigato su queste acque fino a oggi. Se riuscissimo ad arrivare a destinazione sarebbe un’impresa storica!” diceva B. quando, nei momenti di pausa tra un’ansa e un’altra, non poteva spingere con la pertica per via del fondale troppo profondo. Ma i cubani, si sa, hanno un senso dell’epica molto spiccato: senza nulla togliere alla nostra “prima” discesa, sapevamo che non avremmo potuto pretendere nessun riconoscimento. E, d’altra parte, non eravamo nemmeno lì per quello.
In alcuni tratti la corrente spingeva abbastanza ed era un piacere farsi portare a valle, in altri dovevamo massacrarci di fatica per guadagnare pochi metri. Dopo un paio d’ore eravamo riusciti a capire come evitare il cappottamento e anche i punti più difficili sembravano alla nostra portata. Le piene dei giorni precedenti avevano rovesciato tonnellate di noci di cocco sulle sponde e alcuni alberi, sradicati e puntati sul fondale, emergevano come lance dall’acqua. Bisognava quindi evitare di mettersi di traverso rispetto alla corrente per non finire addosso a un masso o a un tronco, rischiando di naufragare.
Locos sul Toa
B. sembrava conoscere bene il Toa. Da ragazzo, armato solo di una retina e di una fiocina fatta in casa, pescava gamberi in apnea proprio in questo tratto finale del fiume; è la tradizionale pesca del “camaròn”. Io e Simone eravamo colpiti da quanto sembrasse “primitivo” lo scenario che stavamo attraversando. I pochissimi abitanti sulle sponde sembravano sbalorditi al nostro passaggio: alla domanda “Da dove arrivate?”, quando rispondevamo “La Planta”, la reazione era tipica di chi non si é mai spostato più di qualche metro dal proprio terreno “oh mi madre! Que locos!!!”.
Le loro facce mi ricordavano le smorfie di stupore e perplessità degli afgani che ci vedevano passare sulla Y10 tra le sterrate del canyon a ovest di Faizabad, durante il Mongol Rally. In questi “mondi paralleli”, abitati da popoli che ai nostri occhi sembrano vivere nel passato, c’é ancora un profondo legame tra l’uomo, il suo territorio e la natura. Questo spiega forse perché, nelle zone remote e povere del mondo, l’allontanarsi da casa è preso in considerazione per necessità di sopravvivenza, non certo come svago o per il desiderio di conoscere.
Abbiamo passato agilmente il tratto del ponte Neblina crollato, schivando un pilone di cemento. Intorno a noi, solo colline ricoperte da fitta vegetazione. Niente avamposti né cartelli di avvertimento.
Mentre ci interrogavamo sull’esistenza di queste misteriose basi, la zattera ha colpito un masso semisommerso e si é piantata di prua sulla sponda del fiume, rimanendo pressata dalla corrente a poppa su una roccia. L’abbiamo disincagliata a colpi di machete, non senza fatica.
B. era abbastanza nervoso, perché sapeva che eravamo ormai in linea d’aria davanti ai militari e che era l’unico di noi che rischiava di passare guai seri. Ma per fortuna la base non era sulle sponde del fiume e abbiamo superato in fretta il tratto più esposto, pagaiando come matti. Se avessimo avuto anche un solo altro intoppo non saremmo mai arrivati entro sera al punto scelto da B. per passare la notte, rischiando di incappare in una ronda. Della base militare tanto temuta però neanche l’ombra.
Un Eden dal futuro incerto
Al calare della notte eravamo in un tratto in cui la corrente é quasi assente, a poco meno di due chilometri dalla foce, vicinissimi alla strada che porta a Baracoa. Eravamo fuori pericolo, perché eravamo rientrati nella “zona turistica” dove il governo autorizza anche le escursioni in barca. Il bivacco é stato perfetto. In amaca, sotto una tettoia di tronchi e foglie di palma, abbiamo ripreso le energie per il rush finale.
La mattina presto eravamo già alla foce del Toa, dove le onde dell’oceano si infrangono sulle infinite spiagge di sabbia nera.
Tecnicamente lo Yumuri ci aveva dato più problemi, ma il Toa ci aveva mostrato quanto può essere bello e selvaggio un fiume tropicale. É davvero un Eden! Ma quanto durerà? B. sognava ad alta voce, auspicando un turismo ricco e fiorente sul fiume. Forse i cubani saranno abbastanza maturi da non svendere le proprie ricchezze ambientali al turismo di massa, annebbiati dalla voglia di rivincita e di ritrovare una dignità economica. Ma sarà il tempo a dirlo. A noi rimane il privilegio di aver condiviso con voi questa storia, fatta di zattere e personaggi di altri tempi, in un mondo ancora fuori dai riflettori che – seppure per scelte geopolitiche più che culturali – conserva ancora il fascino di un racconto di Melville.