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October 17, 2014
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Italici a Caracas

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
Time: 4 mins read

“Siamo italici perché abbiamo costruito tante piccole Italie nel mondo e ognuna diversa dall’altra”. Così si scrive in un post della pagina Facebook del progetto Italicos, nato con l’idea di unire, promuovere  e comunicare la comunità italica nel mondo. Una pagina che nasce dalla sensibilità di alcuni italici venezuelani, in particolare di Alfredo D’Ambrosio, vice presidente della Camera di Commercio di Caracas. Ma il progetto ne affianca un altro, denominato Paseo italico, la passeggiata italica tra le regioni italiane in mostra, appunto, a Caracas.

Abbiamo avuto modo di partecipare al primo di questi eventi e pertanto di calarsi, per quanto possibile, in questo mondo italico Venezuelano. Prima di partire ho chiesto a qualche amico quale idea avesse del Venezuela. La risposta è stata, pur non sapendo esattamente dove si trovasse, o almeno in quale parte dell’America Latina, che si tratta di un posto pericoloso. In effetti, alcune statistiche riportano Caracas come la terza città più violenta del mondo dopo San Pedro Sula in Honduras e Acapulco in Messico. Sono statistiche che variano secondo gli indicatori utilizzati, in ogni caso si calcolano circa cinquanta morti ammazzati ogni week end. Le zone più pericolose sono quelle dei barrios: Petare e Catia. Insieme contano quasi due milioni di abitanti. Petare è il più grande dell’America Latina. Le case sono addossate l’una sull’altra. Non si capisce, guardando dalla distanza, perché ovviamente sono zone off limits per turisti, come ci si possa muovere dentro. Non sembrano esserci strade, o comunque sono poche. Ogni tanto si scorgono delle scale. Ogni casa sembra costruita sull’altra come mattoncini di lego a salire, adagiati su belle colline. Si fa fatica a pensare come questi luoghi possano essere presidiati dalla polizia, in quanto inaccessibili. Per raggiungere un posto qualsiasi ci vuole molto tempo e gli eventuali criminali hanno tutto il tempo di dileguarsi nel dedalo del quartiere popolare.

Una parte di questo barrio è possibile vederlo dal Club italo di Caracas. Dista, in linea d’aria, meno di un chilometro, ma è separato da un muro alto due metri di filo spinato. Da un lato piscine, bar, ristoranti, campi da calcio, da bocce, negozi; dall’altro case in latta, legno e il rumore continuo di motori rombanti.

Lo stacco tra i due mondi è potente, inquietante. Poche centinaia di metri separano mondi ben più lontani. In quello decisamente borghese, l’italicità la fa da padrone, anche perché a partecipare non sono solo oriundi o expat italiani, ma piuttosto italofili, persone, cioè, che non hanno discendenza italiana, ma ai quali piace stare in un ambiente italico. La quota d’iscrizione, una volta per tutte, è molto cara, non solo per il costo della vita locale, decisamente inferiore a quello italiano o americano. Per fare un esempio, la paga media di un operaio o un dipendente aziendale è intorno ai 150 dollari al mese. Un pieno di benzina, però, si può fare con circa 80 centesimi di dollaro.

Ma il mondo italico di Caracas si muove in maniera dinamica e con peculiarità proprie. La forte immigrazione dalla penisola italiana è stata tardiva rispetto agli altri paesi del Sud America, in particolare all’Argentina e al Brasile. In Venezuela molti sono arrivati dopo la Seconda Guerra mondiale. Il paese prometteva terre da coltivare a prezzi stracciati se non praticamente regalati.

Gli italiani si sono integrati, sono diventati Venezuelani. Hanno contribuito tantissimo alla costruzione del paese che li ha ospitati, ma hanno mantenuto un contatto privilegiato con l’Italia, in particolar modo con la regione di provenienza. Hanno dato vita ad associazioni di campani, di calabresi, di veneti, di pugliesi, di siciliani vivendo contemporaneamente una situazione di pluriapparteneza: alla regione, all’Italia e al Venezuela. Molti si definiscono orgogliosamente italo-venezuelani. Noi li chiamiamo italici, perché quel trattino non rende merito. Sembra spezzare la loro appartenenza, come fossero divisi in due quando invece sono qualcosa di unico, di particolare, pieno della ricchezza di chi vive insieme due mondi compenetrati.

La Lombardia, la Calabria, l’Abruzzo e il Molise, la Toscana, l’Emilia Romagna, le Marche, la Basilicata, la Campania, la Puglia e la Sicilia diventano protagoniste, con i loro sapori, i loro grandi letterati, i loro grandi musicisti, i loro grandi artisti, per una notte alla settimana in Caracas. Un pezzo di Italia riemerge attraverso intellettuali, artisti, scrittori, attori, cuochi, imprenditori e si offre a chi la vuole afferrare, sentirne il richiamo. Non ci sono italiani stricto senso, ma italici che raccontano l’Italia con i loro occhi, con le loro storie e per questo la rendono più attrattiva, meno scontata, piena di sentimento, desiderio di condividere con chi già la conosce e chi un po’ meno.

È questo quello che mi porto a casa in Italia: un pezzo di un’altra Italia, come dice la citazione introduttiva. Pensavo, partendo, di lasciarla là in mezzo al Mediterraneo, invece ne ho trovata un’altra in un paese, di cui già il nome (Venezuela deriva da Venezuelita, piccola Venezia) risuona italico.

Se c’è una cosa che ho capito è che l’Italia la scopri nella sua essenza proprio fuori dai suoi confini. Scopri di sentirti più italiano. Scopri che l’Italia è amata proprio per quello che più si dà per scontato e di cui non ci si accorge più. Scopri che molti la sognano. Scopri che qualcuno se l’è inventata o reinventata in altri luoghi. Scopri che molti italici si sentono anche migliori degli italiani. Scopri che l’Italia è molto di più di quella penisola a forma di stivale. È solo che noi italiani ce ne dimentichiamo troppo facilmente.

 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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