La prima volta che al telegiornale dissero che Fidel Castro stava per morire, nel gennaio del 2007, io e l’amico Martino Lo Cascio, ci fiondammo come due sciacalli sull’isola del Che in cerca dello scoop della nostra vita. Se Fidel fosse morto avremmo assistito al cambiamento più importante di Cuba dopo la rivoluzione. Andammo con uno spirito eccessivamente iettatore, e finimmo derubati dopo appena ventiquattro ore dal nostro arrivo e passammo più di due settimane vivendo di baratto e di prestiti. Di tutte le innumerevoli avventure cubane, questa, avvenuta a Baracoa nella regione di Guantanamo, è quella che ricordo con più piacere.
Una mattina decisi di andare a esplorare la foresta. Quella gobba verde, che vedevo dalla casa particulares dove abitavamo, sembrava chiamarmi come una sirena. Dovevo seguire il richiamo perché ne avevo bisogno. Ero confuso. La nostra tracotanza, condita con tanta sfortuna, ci aveva fatto intraprendere un viaggio completamente diverso da come lo avevamo immaginato.
La lunga spiaggia scura si estendeva per circa cinquecento metri facendo da ponte naturale tra il paese e la foresta, tra il civile e il primitivo. La sabbia nera scricchiolava sotto i miei scarponi come un tappeto di biscotti croccanti. Era un rumore dolce, che scandiva il ritmo dei miei passi e si alternava alla cantilena del mio respiro.
Le onde dell’Atlantico si infrangevano violentemente sulla costa. A ogni impatto sulla terra ferma, si espandevano sotto forma di schiuma bianca per poi risucchiare, ritirandosi, i sassolini del bagnasciuga che sembravano tenersi saldamente l’un l’altro per non finire in fondo al mare. Alte colonne di salsedine, tirate su dal vento, si abbattevano sulla spiaggia e su di me, rendendo ancor più salate le gocce di sudore che mi rigavano abbondantemente il viso.
Non era il giorno migliore per avventurarsi nella foresta. L’aria era umida e calda già all’alba. In lontananza, grosse nubi si avvicinavano con passo lesto e voglia di scontrarsi per generare un nubifragio. Non avevo neanche idea di cosa stessi cercando, ma avanzavo deciso. Camminavo senza sosta verso ciò che in quel momento rappresentava il mio senso di libertà. Alla mia destra apparve presto il Rio Miel, un corso d’acqua dolce che si fonde con il mare a qualche chilometro da Baracoa. Un tempo gli indios nativi dell’isola pescavano nelle acque generose del fiume e in quelle burrascose dell’oceano. Poi Cristoforo Colombo sbarcò da queste parti e cambiò quel mondo che nuovo non era affatto. Dei nativi che lo videro piantare il crocifisso sulla spiaggia, non rimangono che pochi geni nel sangue di un pugno di contadini e un gomitolo di vecchie stradine nella foresta, ampliate poi durante la rivoluzione, per volere del Che.
Incontrai un uomo vestito di pochi stracci che stava arrampicandosi su una palma. Dopo avermi seguito con lo sguardo per qualche metro, con un paio di balzi venne giù e si mise a seguirmi. Accelerai un po’, non avevo voglia di parlare con nessuno. L’uomo mi raggiunse e mi salutò amichevolmente, ma io risposi con freddezza e diffidenza. I suoi umili vestiti erano tuttavia una buona carta di presentazione: non era di certo uno che viveva di truffe o furti ai danni degli stranieri. Cambiai atteggiamento. Gli dissi che mi stavo addentrando nella foresta e lui si propose come guida. Wilson, questo il suo nome, portava ogni tanto i turisti alla Cueva, una spettacolare grotta con piscina naturale al suo interno, e alle cascate del Rio Miel.
Non ero interessato a tour fotografici, volevo solo entrare nella foresta. Fidel Castro non era ancora morto ed era chiaro che la sua vita non fosse realmente a rischio come ci avevano fatto credere in TV. Meglio dedicarsi ad altro. Il barbuto ci aveva fregato, inutile nasconderci dietro un dito. Non avrei mai più neanche tentato di fare lo sciacallo, specialmente giocando contro un cubano. Tra l’altro, io contro Fidel non avevo proprio nulla, volevo solo vivere un momento importante della storia in prima persona. Pazienza.
Io e Wilson contrattammo per qualche minuto sulla sua ricompensa. Bastarono un paio di capi d’abbigliamento per farlo contento. Del resto, io non avevo più una lira. Ogni tanto, durante il primo tratto di marcia, guardava con orgoglio la vecchia camicia militare che gli avevo regalato. La teneva ben piegata sul braccio destro, quasi fosse un vestito da cerimonia.
Continuammo a camminare per una stradina alberata parallela alla spiaggia per poi attraversare il Rio Miel, tramite un ponticello di vecchie travi che conduce a Boca del Miel. Il villaggio, popolato da pescatori, è povero e isolato. Sentendo i pesanti passi dei miei scarponi sulle pietre della trazzera, alcune donne si affacciarono incuriosite per trovare un argomento di pettegolezzo per la sera.
La stradina si fece sempre più ripida, il terreno scivoloso. Lungo il sentiero vi erano diverse capanne abitate da famiglie che coltivavano la terra o allevavano il bestiame. Di tanto in tanto incontravamo uomini scalzi, con sacchi voluminosi sulle spalle e con un machete legato alla cintura. “Cosa trasportano?” chiesi a Wilson. “Alcuni cacao, altri banane. Sono campesinos come me”.
Passammo davanti a una scuola elementare. I bambini erano tutti nella classica uniforme della scuola primaria cubana: camicetta bianca, pantaloncini rossi, fiocco al collo. Faceva una certa impressione vederli giocare in mezzo alla foresta con quella stessa divisa che vestivano anche i loro coetanei delle grandi città dell’isola. Ogni giorno attraversano da soli ripidi sentieri per andare alle lezioni. Può capitare che un genitore gli dia un passaggio con il mulo o sulla bicicletta, ma quando piove la strada diventa impraticabile e devono restare a casa.
Anche io sperimentai presto la spiacevole sensazione di camminare nella foresta sotto la pioggia battente. Le nuvole si erano chiuse da tempo sulle nostre teste. Cominciò a tuonare. Il suolo sotto le nostre scarpe si trasformò rapidamente da terreno secco a fiume di fango. Procedere diventò molto faticoso. Wilson si tolse le vecchie ciabatte e continuò a piedi nudi. I mie scarponi da trekking cominciarono a pesare come mattoni di tufo.
Ci imbattemmo in un fuoristrada di Radio Cuba impantanato in una stradina ripida in salita. Portava un carico di antenne da installare a Baracoa. Il fango era profondo e le grosse ruote del veicolo giravano a vuoto. Alcuni uomini attaccarono un tirante d’acciaio a una robusta palma reale per trainarlo.
“Procediamo. Siamo quasi arrivati alla finca”. La foresta si sviluppava intorno a noi come una sconfinata matassa di radici, foglie, arbusti. Il verde occupava ogni angolo del nostro campo visivo, dall’immediato all’orizzonte.
Rimanevo senza parole ogni volta che, tra la fitta vegetazione, si scorgevano le colline lontane. Quella vista mi dava le vertigini. Il fango cambiò improvvisamente colore. Dapprima rosso, divenne giallo e argilloso.
Arrivati a una radura Wilson si fermò e lanciò un urlo. Da una capanna uscì Geovanni, un campesino di ventiquattro anni, magro, alto, fisico atletico. Era suo cugino. Aveva uno strano tatuaggio sulla spalla sinistra e vestiva solo un paio di pantaloncini sgualciti. Niente scarpe, troppo fango. Che senso ha sporcare degli oggetti così preziosi? Ecco perché la gente che lavora qua ha due paia di calzature: quelle buone per andare in città e quelle da battaglia per camminare sulla mulattiera che da Boca del Miel sale nella foresta.
Geovanni prese con sé un machete e ci guidò nel terreno dietro casa. Le stradine interne, che collegano i campi, sono un labirinto intricato. Sembra di girare intorno agli stessi alberi per ore. Persino chi ci abita ogni tanto si perde. Che brutta storia sarà stata fare pattugliamenti durante la guerra del Vietnam!
Come le maglie di una vecchia rete, i sentieri si incrociano e si separano, scavalcano ruscelli e zone rocciose, colline e piantagioni, si interrompono improvvisamente e riprendono più in là. Certe volte per proseguire si deve attraversare il terreno di un campesino, chiedendo sempre il permesso e stando molto attenti ai cani, unico antifurto per il bestiame.
I miei ciceroni non si preoccupavano minimamente della pioggia. Avanzavano spediti nel fango che si faceva sempre più profondo, mentre io arrancavo chiuso nei miei scarponi zavorrati. In alcuni punti avevo l’impressione che ci fosse un mostro, sottoterra, intento ad afferrarmi le caviglie e a tirarmi giù. Molte pozze erano vere trappole e, senza una chiusura adeguata, la scarpa rischiava di essere risucchiata e restare nella melma. La forza del fango è impressionante.
Ci fermavamo spesso per rifocillarci, bevendo un po’ di latte di cocco, ciucciando dolci semi di cacao o mordendo del buon sapote. Geovanni si dimostrò abilissimo a salire sugli alberi per prendere i frutti. Faceva movimenti simili a quelli del bradipo. Lento, ma aggraziato. I suoi gesti esprimevano una forza paragonabile a quella dei migliori arrampicatori sportivi. Sono sicuro che, con le sue leve, nervose e lunghe, sarebbe stato un ottimo scalatore. Era uno spettacolo vederlo dondolare come una scimmia sui rami più alti. I tronchi delle piante erano viscidi e umidi, ma per lui, scalzo, questo non sembrava costituire un problema. Prima di salire faceva due respiri profondi. Poi si lanciava. Una bracciata, un’altra, i piedi sempre bene in aderenza, il peso distribuito perfettamente sulle gambe sottili. Andava in spaccata tra i rami e, in bilico, selezionava i frutti migliori da lanciare a Wilson. Una scena così è piuttosto rara da vedere nel “nostro mondo” dove troviamo tutto pronto per essere consumato. Impacchettato in un frigo, al supermercato, tutto è prodotto in serie, meccanicamente, senza anima. Ci sono talmente tanti passaggi per risalire alla fonte di cibo che si potrebbe perdere il conto. La natura è ormai lontana. Nella foresta loro invece vivono così, nella semplicità e nella condizione primitiva di poter usufruire di ciò che offre la terra, in ogni periodo dell’anno.
Le mie due guide si inoltrarono nel terreno di un altro campesino, un amico di famiglia che accudiva i galli da combattimento di Geovanni. Ne aveva due. Uno era malato. Aveva la “tigna” e perdeva piume, per questo era isolato in quarantena. L’altro invece era perfettamente in forma. Era considerato un talento, un “matador”. Aveva già scannato tre rivali. L’ultima lotta era durata circa un’ora. Quasi era morto per lo sfinimento. Si sa, la vita non è facile se sei un pollo. Mi diedero il pennuto tra le braccia, lo accarezzai come un micio. Aveva un aspetto fiero, da gladiatore, possente, scaltro. Le sue cosce muscolose erano rosse come il fuoco, il suo piumaggio, bianco e nero, folto e ben curato. Tuttavia il suo sguardo era dolce. Non so come spiegarlo, ma provai una certa stima per quella bestiola. Quanti di noi sarebbero capaci di vivere come lui? Sono certo che quando entra nell’arena sa già che potrebbe morire. Lo intuisce per istinto. Lo stesso istinto che lo rende aggressivo e spietato non appena il suo padrone gli monta il gancio di ferro sotto la zampa per rendere letali i suoi attacchi. Lo salutai con amarezza quando lo riposero nella gabbia. Buena suerte pollo gladiatore! Continuammo a camminare nella finca fino a sera.
Tempo incerto e nuvole lontane dalla rotta imprevista. La spiaggia nera mi cullò al rientro con il suo solito scricchiolio, il mare mi cantava storie lontane nel tempo. Que fanguera! Donne cubane divertite mi accoglievano al mio rientro a Baracoa. La foresta rimaneva dietro di me, dove il fango decide la vita e dove i galli ruggiscono al sole.