Quando entrai in quell’edicola di Cracovia, una sera di settembre, non immaginavo certo di trovare lo spunto per il documentario che avrebbe cambiato la mia vita sotto molti punti di vista. Giravo annoiato tra riviste e giornali internazionali, senza cercare nulla in particolare e con neanche tanta voglia di leggere. Tornavo in treno dalla Lettonia, dove avevo appena scoperto che quella che ritenevo la mia ragazza, era un po’ la ragazza di tutti. Non l’avevo presa benissimo. Arrivai davanti a uno scaffale e mi fermai. Tutti i magazine riportavano delle foto agghiaccianti di bambini feriti, semi nudi, in braccio a uomini intenti a scappare da qualcosa. Lessi il nome del luogo e la data: Beslan, 3 Settembre 2004. Ma che follia era mai quella? Beslan? Ma dov’è? Cominciai a sfogliare le varie riviste. Chi dichiarava trecento morti, chi mille feriti, chi mille morti. C’era chi parlava di attentato dei terroristi ceceni ai danni degli osseti e chi di un gesto di Al Qaeda sulla scia dell’undici Settembre. La confusione più totale su dati e fatti. Tipico del giornalismo sensazionalista e strappalacrime. Poche righe sulle ipotesi e sulle dinamiche, tanto spazio per i racconti dei bambini superstiti, dei genitori ancora sconvolti, dei finti testimoni.
“Allora ci vado da me a farmi un’idea!”, urlai. Non comprai neanche un giornale e tornai al mio viaggio verso casa. Ancora lontanissima. Per tutto il rientro mi immaginai reporter di guerra come Robert Capa in quel del Caucaso. Poi guardavo fuori dal finestrino del treno, scoraggiato: “Figurarsi…chi mai potrebbe darmi credito per un lavoro del genere alla mia prima esperienza!”.
Per una serie fortunata di eventi e come risultato di fatica e determinazione, otto mesi dopo ero alla Casa della Cultura di Beslan, infiltrato con due amici che avevo coinvolto per la folle spedizione. Ero un ragazzetto con una telecamerina in mano, in mezzo a un centinaio di genitori e parenti delle vittime, in una delle zone più calde del mondo in quel periodo. Si preparava un comizio. Special guest: Garry Kasparov, campione del mondo di scacchi. L’uomo che aveva battuto un computer creato appositamente per annientarlo sulla scacchiera, si trovava impegnato in una campagna anti-Putin, piuttosto pretenziosa e di poche prospettive, ma per me, ai tempi, davvero encomiabile.
Kasparov stava rischiando. Di armi nel Caucaso ne avevamo viste davvero tante in pochi giorni. La stessa strage, il giorno della fuga degli ostaggi, divenne un far west tra genitori, banditi e ogni genere di milizia.
Rileggendo il mio diario sento ancora sulla pelle la tensione di quel giorno. Arriva un po’ di gente dalle case intorno, soprattutto donne vestite di nero con un fazzoletto legato sulla testa. Accendo la telecamera e prendo qualche dettaglio dei volti che mi circondano. Dico a Paolo di fare delle foto e a Giorgia di stare attenta a ciò che si dice. Kasparov sale i gradini all’ingresso della casa della cultura, in posizione più elevata rispetto alla folla in Piazza Lenin. Io mi piazzo accanto a lui e comincio a riprendere. Sono l’operatore più vicino, totalmente immerso tra la gente. Le rogne si presentano puntualmente nelle vesti di un paio di omoni che si avvicinano con aria saccente e con una strana espressione scolpita in faccia. Uno di loro mi colpisce in particolare, è basso, tozzo, estremamente brutto e completamente glabro. Verrò a sapere dopo che si chiama Igor…
Questo tipo blocca il cammino di Kasparov e comincia a parlare con lui come se si lamentasse per il suo ritardo. Io ovviamente non capisco nulla di ciò che dicono, posso solo interpretare le espressioni dei loro volti che seguo dal monitor LCD della videocamera, ma sento che l’atmosfera sta diventando incandescente. Sono così impegnato a fare le riprese che mi sento isolato dal resto del mondo, anche essendo completamente immerso nella situazione. Sento il fiato sul collo delle persone intorno a me, siamo tutti a strettissimo contatto fisico. Le signore che sembravano solo spettatrici, prendono parte alla discussione.
Il mastino pelato comincia ad attaccare lo scacchista che sembra difendersi con una saggezza al di sopra della media. Poi intervengono altre donne per sedare l’ira crescente dell’oppositore. So già che il materiale che sto registrando è eccezionale e non riesco a capacitarmene. Poi sento urlare la signora dietro di me e una vecchietta comincia a singhiozzare tirando fuori dalla tasca la foto di un bambino.
Igor è sempre più incazzato, ora con una donna ora con un'altra. Poi, probabilmente per una parola detta di troppo, esplode la rissa. Mi sento strattonato a destra e a sinistra, ma riesco a stare bene in piedi e fermo con la camera. Il provocatore urla come una bestia. Ha la testa rossa come un pomodoro, le vene del collo gonfie come tubi del drenaggio, gli occhietti da assassino infilati nelle orbite come da un artigiano maldestro.
Le donne lo spingono via insultandolo e dicendogli di vergognarsi. Kasparov guarda la scena con apprensione e con una certa tristezza, senza scomporsi. Non so cosa stia pensando, ma tirando ad indovinare credo che sia per nulla preoccupato per la sua vita. Io lo sarei. Forse fa solo finta, forse è solo una maschera, ma fa molto effetto, colpisce nel segno.
Le donne riescono a respingere l’antagonista che si allontana in maniera piuttosto ambigua, sghignazzando.
Finalmente si può procedere con il comizio. La folla ascolta e sembra apprezzare lo scacchista che si dimostra un oratore formidabile. Io stesso mi illudo di capire cosa dica questo signore con la giacca blu e i capelli brizzolati, che dicono essere il più forte giocatore della storia, colui che ha battuto un computer programmato per essere invincibile nel gioco degli scacchi. Le sue parole devono essere all’altezza della sua fama. Per quasi venti minuti Kasparov parla ripetendo la parola Losch, “menzogna” in russo. Ad un tratto si ferma a osservare qualcosa che si muove bruscamente tra il pubblico. Io osservo tutto dal monitor della telecamera e non mi rendo conto di quello che succede tra la folla. Sento un forte colpo secco giungere dalla tettoia sopra di me. Alzo lo sguardo e vedo un grosso sasso rotolare sul plexiglas. Ne arrivano altri, poi arrivano delle uova e salsa di pomodoro. Giro la camera verso il basso per evitare che si sporchi l’obiettivo o peggio che un sasso distrugga le lenti. Vedo una vecchia riversa a terra che chiede aiuto, la inquadro, ma dopo pochi secondi vengo spinto dalla folla e penso a guadagnarmi una via di fuga.
Temevo che qualcuno avesse sparato, ma fortunatamente sono “solo” sassi. I bodyguard circondano Kasparov che sembra un po’ confuso e lo portano al sicuro vicino ad un albero. In lontananza vedo nuovamente Igor. Stavolta scappa inseguito da uno stuolo di donne inferocite, armate di borsette e pesanti braccia da contadine. Un impatto con loro, dato il peso e la ferocia, è paragonabile a un reggimento di cavalleria pesante. Corro per riuscire a riprendere tutto. È incredibile, questo Igor è proprio pazzo. È stato lui a lanciare i sassi sulla folla.
La donna che ha cacciato Igor raggiunge la testa del corteo piangendo. La vedo correre per stare al passo. Arriva dall’ospite eccellente della giornata e si scusa. Piange e singhiozza come mai ho visto fare. Il corteo rallenta nuovamente, si zittisce sempre più, poi si ferma il vento. Il paesaggio intorno a noi sembra diventare sempre più simile ad un quartiere abbandonato mentre ci avviciniamo al cortile della scuola che piano piano appare in fondo al viale. Io vado un po’ più avanti per fare le riprese. Appena la gente entra nel cortile della scuola tutto intorno a noi si blocca. Non si sentono più i clacson delle auto, nessuno urla più parole di odio, persino gli uccelli non cantano più.
Poi appare quella scuola. Che disastro! I suoi muri di mattone rosso scheggiato dalle pallottole, i vetri infranti, il silenzio glaciale che soffia tra le sue porte scardinate dalle granate, sembrano guardarci. Gli steli d’erba del giardino si piegano sotto i nostri passi. Entriamo nella palestra come se qualcuno ci avesse disposti in fila per tre, con ordine militare. L’odore delle travi bruciate e dei fiori andati a male ci colpisce come un’onda. Le donne scoppiano in lacrime. Molte di loro hanno perso un parente o un amico dentro quella piccola e insignificante accozzaglia di mattoni e ferro. Mi sento ad un funerale, tutto tace tranne il pianto e il forte tonfo delle lacrime sul parquet incenerito. Sembra di percepire il loro dolore fisico, sto male anche io, come di riflesso.
Ricordo le foto della strage, quelle dei cadaveri e della palestra in fiamme, che purtroppo ho dovuto esaminare per prepararmi a girare il documentario e tentare di ricostruire i punti oscuri del massacro.
Kasparov posa la corona di fiori e comincia a fare un po’ la recita. Si mette una faccia stupita e sconvolta. Scuote il capo facendo dondolare i suoi labbroni come un attore dilettante che accentua troppo movimenti ed espressioni, quasi per paura che lo spettatore non capisca la sua intenzione. Un bambino appena dietro di lui lo fissa con sguardo un po’ confuso. Credo che percepisca molto bene che l’uomo davanti a sé sta cercando di amalgamarsi alla gente intorno. Ogni lacrima che tocca terra segna indelebilmente un’ appartenenza, si mescola alle altre. Il lamento delle donne rimbomba tra le travi incenerite, tra le mura crivellate, ma gli uomini non proferiscono parola. Nessun uomo parla. È come se per un qualche codice d’onore non vogliano esternare la tristezza. Sembra che travasino il dolore alle donne con il compito di liberarsene per loro. Ricordo le immagini della strage. Ricordo i volti di questi maschi osseti durante la liberazione degli ostaggi. Distrutti e senza lacrime, vuoti dentro. Solidi come rocce nell’abbracciare i figli rimasti vivi e consolare il pianto delle mogli.
Appena fuori dalla palestra, nel cortile, si apre nuovamente il dibattito. Nessuno ancora aveva avuto il coraggio di parlare. Intorno all’ospite tutti si dispongono come il coro di una tragedia. Le donne da un lato, gli uomini dall’ altro. Io non capisco, ma percepisco fortemente l’atmosfera tenebrosa che si è creata in questo cortile, un po’ palcoscenico e un po’ drammatico specchio della realtà.
Donna: “Lì dentro vedrà pezzetti di cranio e di atri dei bambini, si vede che sono dei bambini, vedrà tutto da se. L’abbiamo invitata in questa scuola perché il Potere non vuole che parliamo di là. Noi allora l’abbiamo portata tra le mura di questa scuola, perché questa scuola è sacra. Se l’uomo davanti a noi può parlare di sé, testimoniare per gli altri, non essendo del tutto sincero davanti alla memoria dei nostri sacri bambini, dentro questa scuola l’uomo dirà soltanto ciò che pensa e sente veramente. Se le duole il cuore, se la sua anima è tormentata siamo pronti ad ascoltarla. Ci vergogniamo tanto per ciò che è successo prima in piazza, ma lei è venuto da noi, persone che hanno sofferto e sanno che queste cose succedono nella vita”.
Kasparov: “Non c’è guerra in cui ci sia tanto dolore come in un solo metro quadrato di questa scuola.
Quindi cosa dovrei dire? Dicendo una parola stupida o una intelligente è pur sempre una parola. Le parole volano, il dolore resta. Sono venuto qui perché credo sia dovere di ogni russo entrare qua dentro e vedere che cosa è potuto succedere nella nostra nazione. A che cosa siamo arrivati nel nostro Paese? Bisogna capire che questo è stato possibile perché l’esercito, la polizia e quel numero infinito di strutture che hanno creato per proteggerci, invece di combattere i terroristi hanno portato a ciò che vediamo ora con i nostri occhi (indica la scuola). Questo significa che qualcosa non va e che tutti noi siamo colpevoli, anche io sono colpevole, ognuno è colpevole nel pensare che ciò non ci riguarda. […] I vostri bambini non si possono più salvare, è vero, ma la loro memoria esige che non si ripeta mai più tale disgrazia, poiché se non li costringeremo a parlare, se non sapremo mai la verità, può ripetersi ovunque. Più il potere va avanti e più persone uccide. Per loro la vita umana non ha nessun valore”.
Interviene un contadino: “Io non sono un politico, ho iniziato a quindici anni a lavorare, sono stato anni in marina, sono stato bruciato, affondato, bloccato nelle miniere. Non sono gli scienziati a conoscere la vita, ma quelli come me! E sono sicuro che quelli come Jirinovski, come Putin e come Eltsin sono persone che non hanno mai alzato niente di più pesante di se stessi! Io invece ho alzato montagne! Gente, guardate, un tempo nelle forze di sicurezza c’erano solo gli anziani, ora sono tutti ragazzini, ci sono più poliziotti che civili”.
Donna: “Il contrappeso del potere è composto da poche persone semplici. Allora perché non raccolgono in tutta la Russia questa cinquantina di persone che loro chiamano 'ribelli' e non ci fanno saltare in aria, dopo averci stipato come sardine tra le mura di questa scuola? Perché non ci fanno stare zitti se ne hanno il coraggio? Allora sapremo che il Potere è realmente assassino ed è capace solo di questo. Mi piace credere che ci sia qualcuno che vuole sapere la verità e noi vogliamo che venga fuori. Vogliamo che chi ha sbagliato si assuma le proprie responsabilità! Patrushev e Nurgalev, hanno dato ordine di sparare. I carristi hanno solo eseguito gli ordini così come i cecchini e i soldati sui tetti. Loro hanno avuto ordine di sparare con i lanciagranate e hanno sparato sulla scuola anche quando non uscivano più ostaggi. Morti e feriti sono stati inceneriti”.
Una vecchia signora irrompe disperata: “Mi vergogno per quello che è successo poco fa alla Casa della Cultura. Garry, lei non è un estraneo, è del Caucaso come noi, ma come hanno permesso che ciò avvenisse?
Come abbiamo fatto ad arrivare a tanto nel nostro paese? Prima venivo qui pensando di giocare con i bambini, ma ora non è più possibile fare nemmeno questo! Perché non facciamo risuonare ancora quella vecchia canzone sovietica 'che ci sia sempre il sole, che ci sia sempre la mamma e il cielo sereno e pacifico?'
Ma alcune persone non vogliono sia così. Non riesco a calmarmi! Se non li emozionano neanche le mura distrutte di questa scuola significa che non sono persone e non hanno il diritto di vivere con noi nel nostro Paese.
Donna: “A che servono la poltrona e l’incarico se poi tuo figlio rimane bruciato come questi tronchi di legno? Dovrebbero immaginare il loro bambino in questo modo, quando non si può più riconoscere se è maschio o femmina perché sono solo pezzi bruciati, senza le rotondità, senza organi interni senza nulla. È spaventoso”.
Dopo un’ora e mezza, come si era creata, l’agorà si disperde. Una cosa sono certo di aver capito, sono seduto su una polveriera. Il Caucaso brucia dell’ odio di persone che non hanno più nulla da perdere se non una vita di sofferenze e di dolore. Queste persone che oggi hanno parlato davanti a me, ospite indiscreto e silenzioso, hanno esternato il proprio strazio rendendomi partecipe. Sono loro grato perché mi hanno fatto capire che chiunque prima o poi, può diventare un osseto.
Non scoprimmo mai la verità assoluta sulla strage, ovviamente. E tante altre vicende avventurose segnarono quel nostro percorso funambolico in cose più grandi di noi. Molto più grandi di noi. La guerra e il dolore sembravano solo il vivere momentaneamente un film, con il privilegio di potersi tirare fuori in qualunque momento. Non è così. Le parole volano, il dolore resta. Anche se è quello degli altri, che, inevitabilmente, se hai vent’anni, non puoi che assorbire come una spugna.