“Non so quale dea dovrò pregare d’ora in poi. Io, Neith, non lo sono più: sono stata sconfitta da donne berbere come me. Le chiamano amazzoni. Erano in centomila e avevano il vento tra le cosce. I loro capelli fiammeggiavano e gli uomini del mio popolo di Atlantide sono diventati cenere sulle loro are. Ma a quale divinità li hanno immolati? Ci sarà mai più una dea che riporterà pace tra uomini e donne?”
Guardo la scalinata che sale verso il niente, il tempio romano è stato distrutto, ma il bassorilievo di un basamento indica ancora cosa sacrificare: un toro, un ariete e un gallo. I romani erano civili, sapevano che gli dei si accontentavano del profumo d’arrosto. Prima però Tipaza era stata una città punica e Tiamat richiedeva sacrifici umani – raccontavano – per poter esistere nel timore dei fedeli. Come la fenicia Astarte, che dava il buon esempio nel mito immolando un amante ogni fine anno.
E come dar torto a queste dee dopo che Iarba, re dei getuli, aveva concesso a Didone, principessa esule da Tiro, solo lo spazio di un pezzo di pelle di capra dove vivere? Finché dio è stata una dea, l’autostima ha sorretto lo spirito femminile e le donne hanno saputo farsi rispettare.
Ma ancora prima dei romani, prima dei fenici, prima dei punici, prima dei libici, chi ha abitato l’antica terra della Numidia, l’attuale Algeria? Molti popoli nomadi hanno attraversato la catena dei Piccoli Atlanti e del Grande Atlante dall’oceano al lago Tritonide: ausei, ammoni, lotofagi, massi, getuli, garamanti, zavechi, gizanti, ataranti, scrive Erodoto nelle sue “Storie”. Essi hanno saputo spostare le colonne d’Ercole al di là del mondo conosciuto tanto che i greci non le raggiunsero mai. L’Oceano oggi è solo il mare Mediterraneo e il Lago Tritonide una leggenda, perché vi abitavano gli atlanti. Discendenti del titano Atlante, avevano inventato per primi gli dei. Il loro re Urano aveva avuto molti figli da Titea, i quali furono soprannominati Titani. Basilea, la più saggia, venne chiamata ‘la Grande Madre’. Fu la prima dea. Ebbe due figli, Helio e Selene, il sole e la luna, che i nomadi seguivano e adoravano ma la divina era lei a cui davano nomi diversi nelle loro migrazioni: Neith, Tiamat, Astarte…
Dopo esser stata sconfitta dalle amazzoni, Neith era fuggita in Grecia e si faceva chiamare Atena. Ma non furono le guerriere a cavallo a distruggere la prospera civiltà di Atlantide – stanziata intorno al grande lago tra l’Algeria e la Tunisia – bensì maremoti, terremoti ed eruttazioni dei massicci vulcanici fecero scomparire il lago del dio Tritone e pure il suo culto di una misteriosa trinità. Fu sostituito da Poseidone, dio del mare, che aveva spezzato la diga inabissandolo. Oramai gli dei erano innumerevoli come gli interessi degli uomini, i quali, per non perdere il potere acquisito, adoravano un po’ tutti. I romani erano pratici: sapevano che era sciocco mettere in discussione gli dei altrui ai fini della civile convivenza, eppoi magari funzionavano anche meglio. Grazie alla tolleranza religiosa sono riusciti a diventare un grande impero e a lasciarci siti archeologici spettacolari come quelli d’Algeria, il più esteso paese d’Africa con 1200 chilometri di costa, dove si affacciano ancora templi sontuosi.
Quando mi è arrivata la mail d’invito del direttore generale del ministero del Turismo algerino, Rachid Cheloufi, che avevo conosciuto alla fiera del Turismo a Milano a febbraio, sono andata al settimo cielo dalla felicità di poter visitare alcuni dei siti archeologici romani di questo Paese che sta riaprendo al turismo.
Non appena siamo arrivati a Tipaza, a 70 chilometri da Algeri, sono sparita. Mi cercavano tutti, preoccupatissimi. Adoro girare da sola per i resti e ascoltare le sensazioni che mi trasmettono. Non sopporto che una guida mi parli e il dover aspettare che tutti facciano fotografie. Mi sono trovata davanti a una strada delimitata da colonne che sembrava si tuffasse nel mare turchese e conducesse alla fine del mondo. Gli dei qui ti osservano, vorrebbero parlarti ma tu sei troppo impegnato a fare il turista e non comprendi che è la loro luce a illuminare tutto questo. Saltello tra le rocce e arrivo ai resti di una basilica i cui archi incorniciano l’orizzonte. Il luogo era abitato già 12 mila anni fa e, benché i vandali nel 430 distrussero questa importante colonia romana fondata dall’imperatore Claudio, c’è ancora molto da vedere e da immaginare. Ci sono tutti: dai numidi ai bizantini, impegnati nei loro commerci e nelle loro funzioni religiose, ma ci sono anche dei fidanzatini che siedono vicini e aspettano, allora come ora, che dal mare arrivi il futuro. La fitta vegetazione ricopre la roccia frastagliata con un effetto vellutato e tondeggiante, i fiori colorano le pietre ocra e rendono la distruzione un capolavoro. Me ne vado con il rimpianto di non aver potuto anch’io stare lì ad aspettare.
Lungo la strada del ritorno avvistiamo l’imponente mausoleo di Massinissa, primo re di Numidia. Si alleò a Roma permettendole di uscire vittoriosa dalle guerre puniche grazie alla sua cavalleria berbera. Conscio che solo mantenendosi fedele all’impero avrebbe potuto unificare il suo popolo, sacrificò l’amata Sofonisba, figlia del nemico cartaginese Asdrubale. Il patrimonio dell’umanità dispone di racconti così avvincenti, perché – mi chiedo – si girano sempre gli stessi film storici?
Djemila, la bella, sorge in una conca montuosa ricoperta di morbidi prati smeraldo: ben 300 chilometri da Algeri, ma merita il viaggio. Anch’essa molto estesa, sbalordisce con l’imponente tempio della gens Septimia dalle colonne rosate che salgono al cielo e il bell’arco di Carcalla. “Libero et Liberae…” riesco a leggere su una lapide e mi sento libera, come ho sempre vissuto. Poi ricordo che si tratta dell’epiteto del dio dell’ebbrezza e che la traduzione corretta è: “A Libero e a Libera…” E mi si riempie il cuore nel vedere che gli dei Dioniso e Arianna sono ringraziati insieme da una coppia di coniugi che ha saputo vivere felicemente la propria unione nella divinità. Un’altra stele reca una luna crescente sovrastata da un fiore a sei petali, simbolo di geometria sacra che proviene da culti primitivi del sole, fatto proprio dai cavalieri templari molto tempo dopo in Terrasanta, nel XII secolo. Nei misteri dionisiaci gli iniziati apprendevano che esso simboleggiava il seme, la vita appunto, e le trinità maschili e femminili, che corrispondono alle diverse età della vita. Perché ogni periodo è una rinascita e, poiché nella disposizione del cerchio non c’è soluzione di continuità, la vita è eterna. Entro nel museo: le pareti sono completamente tappezzate dai mosaici dei templi di Djemila, e scopro che anche gli antichi romani facevano e scioglievano voti d’amore con tanto di cuoricini e freccette. C’era da ringraziare Venere che sorgeva nuda da una conchiglia tra Nereidi e Cupido, Europa che cavalcava discinta il toro e gli offriva un piatto di afrodisiaci semi di melograno, una menade che mostrava il fallico contenuto della cesta a una donna che però si schermiva… Come le donne velate che entrano e, per rispetto al loro dio, non alzano gli occhi dalle bacheche, in cui sono esposti piccoli oggetti e gioielli banali, invece di rimirare piuttosto questi capolavori.
Altri 150 chilometri e Tiddis testimonia proprio l’abbandono degli dei. Sì ci sono stati, c’è anzi anche un bassorilievo con una testa di toro di epoca precedente, probabilmente fenicia, ma qui non si sa cosa pregare. Il Medioevo ha fatto costruire mura difensive e l’unico monito che ci rimane è l’incisione su un masso: “Fortuna …sacra”. Cosa fosse stato scritto in mezzo, non si sa, ma io ci metterei: “in vita”. Una donna siede col capo velato e una bimba tra le braccia: sembra una madonna, ma si rifiuta di farsi cogliere l’anima dall’obiettivo e gira la testa. Non sa che la forza della donna è proprio nello sguardo severo e pietoso della dea.
Siamo ad Annuba, l’antica Ippona, tra i cui resti, nel museo, c’è un sarcofago decorato con scene di amazzomachia. La guerra tra amazzoni e uomini sembrava già un mito nel II secolo a.C., eppure oggi persistono altri modi di combattersi. La basilica di Sant’Agostino sovrasta il sito e all’interno il sarcofago del santo reca l’invocazione: “O signum unitatis”. Perché fu il perseguimento dell’unità che il berbero vescovo di Ippona più ricercò in vita. Ai turisti del futuro ha lasciato questo monito: “E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri, e non pensano a se stessi”.
Il viaggio deve sempre essere un viaggio dell’anima: non importa quale storia rincorra, l’importante sia la propria. Io, in Algeria, ho visto quello che ho voluto vedere tra le pietre del tempo e i miei sogni. Quando ho visto i suoi occhi ho avuto la certezza che veniva da millenni che nemmeno le pietre possono testimoniare più. Ero alla fiera del turismo di Algeri, il 16 maggio, e vagavo per gli stand affascinata dalle foto dei cavalli arabi, veloci come il vento, e dai colori vividi del deserto. Mi sono fermata a guardarla perché era una giovane donna dalla bellezza perfetta: i capelli neri sottili e ondulati incorniciavano un viso candido come quello di una statua. Ma gli occhi non erano neri, come mi era sembrato, avevano uno strano bagliore e mi sono avvicinata di più: erano di un colore indescrivibile e ci ho visto il blu di una notte ardente, illuminata dai riflessi argentei della luna piena che si rifrangono nel mare. Lei raccontava che era nata nel deserto e lì lavorava, all’Hotel Ksar Massine di Timimoun, oasi vicina a Tamanrassett all’estremo sud del Paese. Una berbera come la dea Neith – ho pensato – con il dna dei mitici atlanti. L’ultimo giorno, il 20 maggio, prima di andare a vistare la casbah di Algeri, mi sono assopita in piscina per riscaldarmi un po’ al sole. Dopo una mezz’ora mi sono svegliata di soprassalto, era quasi l’ora di andare, e incamminata di corsa: ho incrociato lo sguardo di un uomo che aveva lo stesso colore cangiante di occhi, scuro ma chiaro, profondo ma impenetrabile. E’ stata la conferma che qualcuno proviene da un mondo conosciuto solo nei nostri sogni e che i sogni talvolta lo testimoniano. Gli algerini sono un popolo bello, slanciato, dai lineamenti affascinanti e tratteggiati con sapienza dalla natura. Più volte sono rimasta sbalordita dalla perfezione di certi tratti, ma lo sguardo di quei due giovani dagli occhi blu notte non lo potrò dimenticare perché mi hanno mostrato per un attimo l’esistenza di altri mondi che mi piace vagheggiare quando quello in cui vivo mi risulta insopportabile.
Per il resto il mio viaggio è stato pieno di incontri con persone speciali. Ho rivisto Djaba M’Hammed, un tuareg che vive a Bologna e organizza viaggi nel deserto (www.takassitvoyages.com); ho conosciuto Said Boukhelifa, consigliere del ministro, che ci ha accompagnati e intrattenuti con la sua grande cultura; ho fatto amicizia con le assistenti del direttore del turismo algerino, Nacera Moumene e Amel Amel che ci hanno viziato lungo tutto il viaggio ospitandoci nei migliori alberghi, come l’Hilton di Algeri e il Novotel di Constantine, e nei più rinomati ristoranti, quali La Caravelle di Annaba, che dispone di 4 pescherecci e invia giornalmente pesce in Italia, e L’Auberge Fleurie, condotto da Adel Chouder, che ci ha servito la specialità del montone speziato allo spiedo in un magnifico giardino, mentre dei musici ci invitavano a una danza ritmica percuotendo i tamburi del tempo nella notte stellata.