Il divorzio tra Donald Trump ed Elon Musk non è solo una rottura personale. È una frattura strutturale che rischia di travolgere il cuore operativo dell’esperimento trumpiano di governo e mettere in discussione l’equilibrio tra il potere politico e quello economico negli Stati Uniti. Una crisi che investe le istituzioni, le aziende, il Congresso e persino la base elettorale repubblicana che a novembre del prossimo anno, alle elezioni di Mid Term, dovrà votare per rinnovare tutta la Camera e un terzo dei senatori.
Il gesto simbolico delle “chiavi della Casa Bianca” consegnate a Musk solo 24 ore prima dello scontro finale, trasmesso in diretta da tutti i principali network all-news, aveva sancito un’intesa profonda. Il presidente voleva premiare l’uomo a cui aveva affidato l’ambiziosa missione di riformare la macchina burocratica federale. L’obiettivo era dichiarato: licenziare, automatizzare, tagliare. Ridurre Washington a un algoritmo.
Alla guida del DOGE (l’Ufficio per l’Efficienza Governativa), Musk ha imposto un’agenda radicale: epurazioni rapide, servizi digitalizzati, sezioni intere del governo ridotte all’osso. Un piano che aveva volutamente evitato di coinvolgere il Congresso, imposto con decreti e azioni esecutive, aggirando il compromesso politico in nome della velocità.
Questa strategia, tuttavia, ha incontrato ostacoli imprevisti. I tribunali hanno annullato decine di licenziamenti. Settori vitali come il Fisco, la diplomazia e la regolazione alimentare sono stati paralizzati. La Casa Bianca è stata costretta a riassumere centinaia di funzionari allontanati da Musk. Un’ammissione implicita di fallimento e una smentita plateale della narrativa dell’efficienza a ogni costo.
L’implosione del rapporto con Musk arriva mentre il “Big Beautiful Bill” — la manovra bandiera del secondo mandato trumpiano — affronta la prova più difficile: la riconciliazione parlamentare. Il testo prevede tagli fiscali, deregulation e l’abrogazione di politiche ambientali, ma ora deve fare i conti con una fronda interna sempre più visibile: molti parlamentari repubblicani hanno solo ora confessato di averla votata senza neanche avere avuto il tempo di leggere i contenuti della proposta.
I libertari del GOP, da Rand Paul a Thomas Massie, si sono schierati contro il piano, accusandolo di essere incoerente con i principi del libero mercato. Ma tanti altri sono contrari ai profondi tagli alla parte sociale e all’alzamento del tetto di spesa, soprattutto al Senato tra i centristi. Alla Camera anche Marjorie Taylor Greene, in un atto di rottura clamoroso, ha definito il disegno di legge “un affronto ai conservatori fiscali”, chiedendo un ritorno alla “coerenza tra slogan e numeri”. Il dissenso, un tempo marginale, si sta trasformando in un asse potenzialmente destabilizzante per la leadership trumpiana, attaccata da una parte per l’incremento del debito e dall’altra per i tagli ai programmi sociali.
I’d vote for it if we got real spending cuts. But this bill is the largest debt increase in U.S. history—$5T.
That’s like giving your 16-year-old a credit card, watching them rack up $2K on booze and gambling, then raising their limit to $10K. Irresponsible. pic.twitter.com/ZLbBV9bIeJ
— Senator Rand Paul (@SenRandPaul) June 5, 2025
Oltre alle incertezze politiche c’è anche la possibile reazione di Musk. Il patron di Tesla, SpaceX e Starlink — fornitori critici per i programmi civili e militari USA — potrebbe decidere di riorientare le proprie attività verso mercati meno ostili. India, Emirati Arabi, Unione Europea: tutti lo stanno corteggiando come simbolo dell’innovazione.
Steve Bannon, fedele consigliere del trumpismo più radicale, che del populismo spicciolo ha fatto la grancassa del trumpismo ha rilanciato una proposta che suona come intimidazione: indagare sullo status di cittadino naturalizzato di Musk. Un messaggio diretto, in stile “Deep State 2.0”: chi si oppone, va delegittimato.
È sempre stata una strana alleanza, quella tra Donald Trump ed Elon Musk. Da una parte l’imprenditore cresciuto tra i marmi dorati e i talk show, convinto che ogni problema si risolva con un licenziamento urlato davanti alle telecamere; dall’altra il miliardario che sogna di colonizzare Marte, ma inciampa nei moduli del Dipartimento del Lavoro. Uno voleva “drenare la palude” con lo show business, l’altro con l’automazione totale. Alla fine si sono trovati d’accordo solo su una cosa: che le regole sono per gli altri.
Adesso che il matrimonio è finito, ci si chiede chi dei due fosse più illuso. Trump pensava di usare Musk come mascotte dell’“efficienza”. Musk pensava di usare Trump per riprogrammare il governo come fosse un’app. Alla fine, si sono licenziati a vicenda.
Ma ciò che resta è una crepa profonda nella destra americana: tra chi vuole usare lo Stato per combattere il sistema e chi vuole smantellare lo Stato per vendere un nuovo sistema. Due visioni incompatibili che, una volta esplose, a dispetto del Project 2025, potrebbero ridisegnare gli equilibri della politica conservatrice per anni a venire.
Eppure, fino a ieri, i due avevano trovato un terreno comune: la guerra contro le istituzioni tradizionali, lo Stato amministrativo, le regole. Ora che quella convergenza è saltata, resta una domanda aperta: chi guiderà la destra americana nella prossima fase? L’uomo del “You’re fired” o l’uomo di X?