Dal distacco al risentimento il passo è stato breve. Le parole sono pesanti, il tempismo ancora di più.
Elon Musk, fino a pochi giorni fa direttore del Dipartimento per l’Efficienza Governativa (DOGE) dell’amministrazione Trump, ha definito il “Big Beautiful Bill” una “abominazione disgustosa”. Parole che pesano, soprattutto perché arrivano da una figura che fino a pochi giorni fa era un consigliere fisso nell’Oval Office. La sua uscita di scena si trasforma ora in un terremoto politico, proprio mentre il disegno di legge rientra in Senato per affrontare la delicata fase della riconciliazione.
Alla Camera, con tono sarcastico, il leader della minoranza democratica Hakeem Jeffries ha mostrato un ingrandimento del post di Musk, utilizzandolo come prova evidente delle crescenti crepe all’interno del fronte repubblicano.
“Ogni singolo Repubblicano che ha votato per il Big Ugly Bill dovrebbe vergognarsi,” ha dichiarato Jeffries, ribaltando l’appellativo coniato dai sostenitori della legge e trasformandolo in una condanna politica.
Anche il Democratic Congressional Campaign Committee ha reagito con veemenza: “Siamo felici di vedere che Elon è d’accordo con noi sul fatto che ogni Repubblicano che ha votato per questa truffa fiscale dovrebbe perdere il lavoro,” ha dichiarato il portavoce Viet Shelton.
Il disegno di legge in questione mira a estendere i tagli fiscali introdotti nel 2017 durante il primo mandato Trump. Include inoltre un pacchetto aggressivo di riduzioni alla spesa pubblica e nuove limitazioni ai programmi di assistenza come Medicaid e SNAP, i food stamp. Ma è proprio questa combinazione a suscitare le critiche di Musk, che ha accusato i legislatori repubblicani di “tradire il popolo americano” per i soli interessi di parte.
Per i Democratici, la sortita del magnate della Tesla è una manna politica: non solo dimostra una frattura all’interno dell’ex alleanza con Trump, ma offre anche un potente argomento da sviluppare in vista delle prossime elezioni di midterm.
La proposta di bilancio voluta da Trump è l’ambizioso tentativo di consolidare e ampliare l’eredità del suo primo mandato: tagli fiscali permanenti, riduzione del ruolo del governo federale e un pacchetto ideologico ideato da Project 2025 cucito su misura per il movimento MAGA. Ma quella che voleva essere l’apoteosi legislativa rischia ora di trasformarsi in un campo minato politico, specialmente dopo che il Congressional Budget Office, organismo di controllo apartitico del Congresso, ha affermato che questo bilancio aumenterà il deficit di 2,3 trilioni di dollari che si aggiungeranno ai 36.200 miliardi di dollari di passività del Paese.
Dopo un primo passaggio al Senato e una revisione faticosa alla Camera, il disegno di legge è tornato nuovamente al Senato per il delicato processo di reconciliation, che permette l’approvazione a maggioranza semplice, evitando l’ostruzionismo del filibuster, che avrebbe richiesto il voto con la maggioranza qualificata di 60 senatori. Ma la riconciliazione è anche una trappola piena di regole. La Byrd Rule, che prende il nome dallo scomparso senatore Robert Byrd, impone che ogni provvedimento della legge di bilancio debba avere un impatto diretto su entrate o spesa pubblica. Tutto il resto – anche se politicamente importante – deve essere eliminato.
È in questa fase tecnica, ma politicamente esplosiva, che le critiche di Musk diventano dinamite. Il suo clamoroso atto d’accusa rischia di indebolire la disciplina di partito, e fornire una copertura politica a senatori moderati o a rischio elettorale che potrebbero sfilarsi dal fronte repubblicano. In un Senato spaccato, con una maggioranza così limitata, bastano due defezioni per far saltare l’intera architettura disegnata dalla Casa Bianca.
Uno dei passaggi più controversi del disegno di legge è l’inserimento – forzato e al limite del regolamento – di una versione potenziata del REINS Act (Regulations from the Executive in Need of Scrutiny). Il principio è chiaro: ogni nuova regolazione federale con impatto economico superiore ai 100 milioni di dollari deve essere approvata espressamente dal Congresso.
Dietro le quinte, lontano dai riflettori, c’è una figura chiave: la Senate Parliamentarian, Elizabeth MacDonough. È lei che avrà l’ultima parola su quali parti del disegno di legge potranno rientrare nel processo di riconciliazione e quali no. I suoi pareri non sono teoricamente vincolanti, ma lo sono di fatto: sfidarli equivarrebbe a sovvertire le regole del Senato stesso.
Se MacDonough dovesse giudicare il REINS Act – o altri articoli simbolici del disegno di legge – “meramente incidentali” rispetto al bilancio, verrebbero eliminati. A quel punto, l’intera narrazione ideata da Project 2025 e costruita da Trump si sgonfierebbe. Non è un caso che, tra le righe, alcuni senatori repubblicani abbiano iniziato a parlare di “piano B”.
Il leader della maggioranza al Senato, John Thune, si trova in una posizione difficilissima: da una parte deve tenere unita la coalizione – che ha già delle defezioni – dall’altra sa che il rischio di fallire è concreto. Le pressioni della Casa Bianca sono forti, ma anche le tensioni interne: i sondaggi mostrano un elettorato repubblicano diviso, e il malcontento espresso da Musk rischia di incendiare proprio quei segmenti che il GOP non può permettersi di perdere, come gli imprenditori, i professionisti e l’elettorato suburbano.
Il Big Beautiful Bill doveva essere la piattaforma economica su cui lanciare la campagna per consolidare il controllo del Congresso nel 2026. Ora è diventato un test di tenuta interna, un banco di prova per la disciplina legislativa e un simbolo di quanto sia difficile trasformare gli slogan in governance.