Il bastone e la carota: il governo israeliano ha deciso di riprendere le trattative sul cessate il fuoco a Gaza e sulla liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas, ma continua a minacciare di allargare l’offensiva nella Striscia e anche oltre, a nord di Israele.
Washington e Tel Aviv hanno ripreso i colloqui con l’obiettivo di portare a Washington alcuni alti funzionari israeliani per discutere di come svolgere potenziali operazioni militari a Gaza, pur proteggendo i civili. I colloqui erano stati annullati da Israele dopo che il premier Benjamin Netanyahu si era indignato per l’approvazione alle Nazioni Unite, lunedì, di una risoluzione che chiede il cessate il fuoco a Gaza. Quel testo era stato approvato – dopo infiniti negoziati al Consiglio di Sicurezza – con la cruciale astensione degli Stati Uniti. Che l’amministrazione Biden per la prima volta non abbia messo il veto a una risoluzione per il cessate il fuoco era apparso come un segnale di grande sfiducia nella gestione Netanyahu, e anche il premier israeliano l’aveva presa così, ritirando i suoi negoziatori.
Ora si torna a trattare, e non solo a Washington. L’ufficio di Netanyahu ha annunciato che “Il primo ministro ha conversato con il capo del Mossad David Barnea e con il capo dello Shin Bet (la sicurezza interna israeliana) Ronen Bar, e li ha autorizzati ad inviare nei prossimi giorni proprie delegazioni a Doha e al Cairo, con un ampio potere di decisione nella prosecuzione delle trattative sugli ostaggi”.
È molto incerto quali conseguenze possano avere questi negoziati. Israele mira alla restituzione degli ostaggi israeliani ancora in vita e nelle mani degli estremisti di Hamas da oltre cinque mesi, ovvero dal sanguinoso assalto del 7 ottobre. Gli Stati Uniti mirano anche a un cessate il fuoco, che è l’obbiettivo predominante per tutti i negoziatori arabi.
Intanto l’Onu continua ad avvertire che le condizioni a Gaza sono ormai di piena carestia, il conflitto continua a distruggere casa e mietere vittime. Il lancio degli aiuti alimentari per via aerea continua, mentre è ancora lontano il porto mobile che stanno preparando gli Stati Uniti. D’altra parte Washington, spaccata fra difendere l’alleato israeliano e assistere i palestinesi, ha smesso di collaborare con l’UNWRA, l’agenzia Onu per i rifugiati, da quando Israele ha accusato alcuni dei suoi dipendenti di aver partecipato o avallato il massacro del 7 ottobre con le sue 1.200 vittime e il suo corollario di stupri e torture. Ma senza l’UNWRA, cardine degli aiuti nella Striscia, è logisticamente impossibile distribuire materiali.
In questa situazione tragica quanto paradossale, ormai almeno un rapporto dell’Onu parla apertamente di “genocidio”, la stessa accusa contro Israele portata davanti alla Corte di Giustizia dell’Aia dal Sudafrica, una causa a cui si è associata l’Irlanda. Motivo: non solo la guerra indiscriminata che ha ucciso oltre 32.000 palestinesi, in massima parte civili, dal 7 ottobre; ma il blocco degli aiuti alimentari via terra che Israele mette in atto per impedire che nell’enclave entrino anche materiali utili ad Hamas.
Per il governo israeliano continuare l’offensiva e riportare qualche successo nella lotta contro Hamas è questione di sopravvivenza politica. Così Benjamin Netanyahu torna ad assicurare che l’offensiva a Rafah ci sarà. E il suo ministro della Difesa, Yael Gallant, annuncia “allargheremo l’offensiva anche a nord” di Israele, contro Hezbollah nel Libano. Proprio l’ampliamento del conflitto che tutti i negoziatori vorrebbero disperatamente evitare.