“Che tipo di americano sei?” Questa domanda riecheggia come il fragore di un cannone nel nuovo film di Alex Garland, Civil War, su una nazione dilaniata da una nuova guerra di secessione e tenuta in ostaggio dal suo stesso Presidente. La coalizione degli Stati dell’Ovest, guidati da Texas e California, marcia verso Washington per decapitare la tirannia. Il film che sta facendo discutere gli Stati Uniti è in uscita anche in Italia, dal 12 aprile nelle sale.
Gli eventi sono narrati attraverso quattro membri della stampa: la pluripremiata fotoreporter Lee (Kirsten Dunst), il suo collega della Reuters Joel (Wagner Moura), il veterano del New York Times, Sammy, (Stephen Henderson) e la giovanissima aspirante fotografa Jassie (Cailey Spaeny). La loro missione è giungere alla Casa Bianca per catturare un’ultima immagine del presidente, prima che i suoi resti vengano trascinati per le strade come un Mussolini tutto americano.
Nell’anno delle elezioni presidenziali, il film di Garland dipinge un vivido quadro sulla degenerazione delle democrazie contemporanee, non solo a stelle e strisce. Quando il film arriva a DC, con il fuoco che infuria e i carri armati che rombano, tornano alla mente i ricordi dell’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021 da parte dei sostenitori di Trump.
Un inquietante Nick Offerman nel ruolo del Presidente Lealista è un autoritario imperturbabile al suo terzo mandato, ha militarizzato la polizia, sciolto l’FBI e ordinato attacchi con droni in tutto il paese. È facile riconoscere nel suo personaggio una parodia diretta.
Ma Civil War non è un film distopico né tantomeno un film di guerra, piuttosto un road movie sulle strade di un’America frantumata. Non abbiamo informazioni sui motivi che hanno portato al conflitto. Conta solo la narrazione della carneficina e della sofferenza umana così come l’abbiamo interiorizzata e normalizzata nella nostra immaginazione collettiva attraverso lo sguardo familiare, duro e implacabile dell’obiettivo di una macchina fotografica.

In un paese sempre più ostile nei confronti del giornalismo, Garland riconosce l’importanza di una stampa libera disposta a rischiare la vita alla ricerca della verità. Tuttavia, non ci troviamo di davanti ad un ritratto romantico della professione. Di fronte agli orrori di un mondo in rovina, Lee ha una sola risposta: scattare una foto, un’insinuazione spinosa sull’eticità del mestiere, sull’ambiguità del fotografare, sui rischi del cinico sciacallaggio o di produrre effetti di voyeurismo. L’altra faccia della medaglia di un giornalismo che ancora conserva un briciolo di umanità è rappresentata inizialmente dalla giovane Jessie. La sua presenza infastidisce Lee, forse perché le ricorda se stessa, quando ancora credeva che valesse la pena rischiare la vita per raccontare la verità.
È inevitabile qualche citazione iconica dei fotoreporter di guerra, dal miliziano morente di Robert Capa proprio durante la guerra civile spagnola del 1936, ai giovani soldati in Vietnam di McCullin, fino alle fosse di Dachau fotografate da Elisabeth Miller (che condivide il nome della protagonista del film, Lee Miller).
Garland aveva debuttato come regista nel 2014 con Ex Machina, uno dei migliori film di fantascienza del decennio, una riflessione profonda ed inquietante sul confine tra uomo e robot. Ora con Civil War evoca incubi sul futuro di una società profondamente divisa tra etnie e gruppi sociali. La vera Guerra Civile (1861-65) lasciò negli Stati Uniti ferite mai del tutto rimarginate, e oggi queste cicatrici si riaprono. La crisi della democrazia, che colpisce molti Paesi occidentali, si intreccia negli Stati Uniti con altre fratture ancora irrisolte.