In un momento storico in cui siamo abituati a vedere tutto, ma davvero di tutto, assistiamo da settimane ad un insolito scontro al vetriolo. Non solo si tratta di due donne, bensì di due premi Nobel per la Pace come Malala Yousafzai e Aung San Suu Kyi. La prima accuserebbe l’omologa birmana, oggi leader del Myanmar, di essere silente circa la pulizia etnica dei Rohingya, l’etnia di religione islamica che vive e preme sul confine birmano. A fare da eco alla giovanissima Malala anche il loro celebre predecessore Desmond Tutu (premio Nobel per la Pace nel 1984 per la lotta all’apartheid) unitamente ad uno stuolo di intellettuali e fans pronti al disconoscimento.
In tanti ormai, magari gli stessi che avevano trasformato questa donna in una icona pop del nuovo millennio, hanno voltato le spalle alla leader birmana, arrivando perfino a chiedere la revoca del Nobel stesso. Dall’altare alla polvere senza passare dal via, insomma. Nella sua dichiarazione pubblica di martedì scorso, San Suu Kyi ha rotto il suo lungo silenzio utilizzando, come lo ha definito il New York Times, “un linguaggio simile a quello dei militari che per quasi 20 anni l’hanno costretta agli arresti domiciliari”, negando quasi l’esistenza stessa di un genocidio in corso. Un pallido riflesso, dunque, di quell’eroina non violenta che ha combattuto la dittatura birmana con uno spirito di gandhiana memoria.
Ma fermiamoci un momento. Escludendo a prescindere che la San Suu Kyi abbia celato dentro di sé brame di potere, spirito militarista oppure chissà quale desiderio sanguinario, c’è da riflettere sul suo ruolo politico e sul potere, reale, che la Birmania le ha concesso. Dapprima ministro onnicomprensivo (compresi gli Esteri) poi, dall’aprile 2016 Consigliere di Stato, ruolo assimilabile ad un Primo Ministro. Ma con quanta libertà di azione? Prossima allo zero. Aung regna ma non governa, proprio come la Regina d’Inghilterra.
Il riconoscimento politico del risultato elettorale, che l’ha portata fra gli scranni del governo birmano, non è stato un tributo alla sua resistenza, non è stato figlio di una transizione democratica: la dittatura, in Birmania, è ancora in corso e quella di Aung è una vittoria di Pirro. Essere riconosciuta come leader del Paese le ha tolto la libertà che, paradossalmente, ha avuto per vent’anni e che l’ha resa un’eroina moderna romanzata e venerata. Ma si dimentica una cosa fondamentale in questo processo di santificazione: Aung è un essere umano, in carne ed ossa, ed è una donna. Una donna sotto evidente scacco del potere, quello vero, prigioniera ancor più di prima.
E non sarebbe il primo esempio della storia. Aung è un ostaggio del Paese che lei stessa rappresenta, la cui parola non conta. Non più. A meno che il suo popolo non decida di abbattere un sistema vecchio di decenni, affrontare la rivoluzione, il bagno di sangue e la salvifica transizione democratica. Al momento, dunque, il pallido fantasma di questa guerriera silenziosa non può nulla per i Rohingya perché non può nulla per la Birmania e non può nulla nemmeno per sé.
C’è poi un altro aspetto. Bisognerebbe trattare con un umanità, delle volte, anche i Grandi del Mondo. A nessuno, e solo la Storia con la s maiuscola potrà dirlo, è venuto in mente che Aung stia lavorando in modo diverso, silenzioso e solo apparentemente omertoso per la tenuta democratica del Paese e per la tragedia dei Rohingya, che sicuramente patisce. Le affermazioni di questi ultimi giorni, così dannatamente fredde e razionali, potrebbero essere un modo di ottenere una mediazione percorrendo fili sottilissimi e impalpabili della diplomazia segreta? Anche l’idea di disertare l’Assemblea delle Nazioni Unite, così apparentemente bellicosa e deludente, può essere uno strumento di tutela verso un paese in cui una sola parola fuori posto può portare al collasso, alla guerra civile, ad un bagno di sangue senza precedenti?
Condannare apertamente la vicenda in questione, senza avere il potere reale per fermarla, poi, avrebbe davvero senso in un Paese che ha imprigionato una donna per quattro lustri solo per un’idea? Rischiare di non poter tornare in Birmania o peggio ancora essere uccisa, dal volgo come Indira e Benazir, oppure avvelenata nel suo letto come tanti prima di lei, salverebbe poi davvero quella Birmania a cui ci siamo appassionati tutti?
I forconi già pronti, in questi giorni, mi ricordano tanto la vicenda del generale Jaruzelski che con il suo putsch contro Solidarnosc, nel 1981, venne additato da tutti come un feroce repressore simbolo di una involuzione della Polonia, ormai avviata alla democrazia. Eppure, il senno di poi, rivalutò Jaruzelski come l’uomo che con quella repressione salvò la Polonia dall’invasione sovietica e da una nuova tragedia.
Il senno di poi, scagionerà anche Aung? Noi, nel frattempo, l’abbiamo già deposta e lasciata sola.