“Oggi l’80% del nostro fatturato proviene dall’estero, quasi metà solo dagli Stati Uniti, ma la nostra identità rimane convintamente italiana”. A spiegarcelo è Paolo Marcucci, presidente e AD di Kedrion – uno dei fiori all’occhiello dell’industria farmaceutica italiana. Un campione nostrano che grazie alla recente partnership con il fondo d’investimento britannico Permira ora punta dritto all’Olimpo mondiale dei plasmaderivati.
Si tratta in sostanza di quei medicinali sviluppati dalle proteine presenti nel plasma – la parte liquida del sangue umano –, debitamente raccolto e trasformato in laboratorio per curare malattie rare come l’emofilia.
Nata formalmente nel 2001 dalla fusione della senese Sclavo, della rietina Aima e della pisana Farma Biagini, Kedrion ha il suo quartier generale a Castelvecchio Pascoli, un piccolo borgo in provincia di Lucca – noto ai più per ospitare la casa del celebre poeta romagnolo – e un’altra sede a Sant’Antimo, periferia nord di Napoli.
Ad agosto la maggioranza delle quote societarie di Kedrion è passata dalla famiglia Marcucci (che rimane azionista di minoranza) al colosso londinese del private equity Permira e al fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti. Lo scorso settembre, quindi, l’acquisto della britannica Bio Products Laboratory (BPL), che ha dato vita a un supercampione mondiale da 1,1 miliardi di ricavi e 4.000 dipendenti.
Ma da dove nasce la svolta internazionale di Kedrion?
La storia di Kedrion è un classico esempio di imprenditoria familiare italiana, di un’azienda principalmente dedita alla trasformazione del plasma e alla distribuzione di farmaci plasma-derivati su tutto il territorio nazionale per curare malattie rare. Questo ci ha portato ad avere un fatturato quasi esclusivamente centrato in Italia, con pochissimo spazio per l’estero. Poi, però, con il passaggio generazionale dai padri ai figli, ci siamo posti il tema di come riorganizzarci in maniera strutturata e organica per preparare l’azienda a una svolta internazionale.

E perciò avete scelto gli USA?
In realtà i primi mercati esteri di riferimento sono stati il Sudamerica e il Medio Oriente. Poi nel 2007 abbiamo investito in Europa – tra Germania, Polonia, Portogallo e Austria –, dopodiché nel 2011 c’è stato il “grande salto” nel mercato statunitense.
Un Paese su cui avete puntato forte. Perché?
Perché gli Stati Uniti sono il mercato più grande del mondo, quello più remunerativo. Negli USA poi eravamo in realtà presenti già dal 2004, mediante una società che comprava plasma nel mercato americano e che poi lo mandava in Italia. Col tempo abbiamo invece incominciato a sviluppare diversi centri dove raccogliere autonomamente il plasma. Ma la vera svolta è arrivata proprio nel 2011, quando abbiamo rilevato una società americana che ci ha permesso di passare al livello successivo: non più solo raccolta del plasma, ma anche produzione dei farmaci e distribuzione del prodotto finito sul mercato USA. Una scelta che ci ha premiati, specialmente per quanto riguarda le immunoglobuline, la cura dell’emofilia e uno dei nostri prodotti di punta (il RhoGAM).
Dove sono concentrate le vostre attività americane?
Una delle nostre sedi principali è a Fort Lee, in New Jersey, appena di là dal George Washington Bridge (e dal Bronx, nda). Il sito produttivo che abbiamo negli Stati Uniti per la lavorazione del plasma è invece poco più giù, a Melville, Long Island. Poi abbiamo un’altra sede ad Atlanta, strategica per le operazioni nel Sud-est degli Stati Uniti. Senza contare i circa 30 centri di raccolta plasma in tutto il Paese, che impiegano quasi un migliaio di esperti statunitensi affiancati da personale italiano.
Lei parlava di Stati Uniti come “place to be“. Può spiegarci meglio?
Perché ad esempio c’è molta attenzione sulle cosiddette orphan drugs. Parliamo di farmaci che curano malattie neglette dalla maggior parte delle aziende farmaceutiche a causa del limitatissimo numero di pazienti. Ma che negli USA sono ricompensati in maniera molto interessante: le autorità americane riconoscono infatti al prodotto e all’azienda un’esclusività sul mercato per 7 anni, in aggiunta a prezzi di rimborso che tengono conto di tutti gli investimenti in ricerca e sviluppo.
Il settore dei plasmaderivati è estremamente concentrato, essendoci perciò pochi operatori con grosse quote di mercato. Ad acquisizione (di BPL, nda) avvenuta, consolidiamo la nostra posizione di quinto player globale: competere con aziende molto più grandi di noi richiede una tecnologia molto moderna e grandi investimenti di capitale – che forse solo gli Stati Uniti possono fornire al momento.

Quindi il futuro si profila sempre più a stelle e strisce?
Nonostante siamo convinti che il nostro sviluppo sia giocoforza concentrato oltreoceano, la nostra base e la nostra identità rimangono convintamente in Italia. E a credere in questa nuova svolta sono anche i nostri azionisti italiani, che hanno ri-investito nella nuova società – compresa Cassa depositi e prestiti, il che dimostra l’importanza che l’azienda continua ad avere per il sistema sanitario nazionale.
Poi, chiaramente, le cose negli ultimi 20 anni sono cambiate enormemente: vent’anni fa il 90% del nostro fatturato era legato all’Italia; oggi l’80% proviene dall’estero, e quasi metà solo dagli Stati Uniti, con l’Italia che incide solo per il 20%. Tra l’altro stiamo monitorando anche il mercato cinese, che nei prossimi anni diventerà estremamente appetibile.
Una storia di successo oltreoceano dei Marcucci, la vostra, che è tutt’altro che isolata…
Questa è una storia curiosa. Sul finire dell’Ottocento dal Lucchese si sviluppò un notevole migratorio verso gli Stati Uniti che coinvolse anche la nostra famiglia. Nello specifico, la prima Marcucci ad andare oltreoceano fu una delle sorelle di mio nonno, che sposò un suo concittadino emigrato qualche tempo prima in America. Insieme si stabilirono a Chicago e aprirono un piccolo forno, poi trasformatasi in una società alimentare, la Gonnella Baking Company, che oggi è un colosso alimentare che fattura 100 milioni di dollari all’anno.
E ancora oggi, nonostante siano passati ben 136 anni dalla fondazione, vige ancora una particolarissima regola societaria: il 50% delle quote deve appartenere a discendenti della famiglia Gonnella e il restante 50% alla famiglia Marcucci.