Il piccolo storefront di Gaia Bagnasacco si trova proprio dirimpetto a uno dei community garden dell’East Village e spesso chi viene a prendere un panino o una lasagna ne approfitta e va a goderselo là.
Altre volte, invece, gli avventori si siedono sulle sedie o sulla panchina di fronte all’insegna tricolore: Gaia Italian Café ispira un’atmosfera conviviale. Una di loro, Michelle O’Connor, ci ha detto: “Gaia is a vibe!”. Che si tratti della sede precedente pre-pandemia o del suo nuovo spazio, offre uno spazio in cui riunirsi. Non è mai stato elegante, ma ogni boccone è pieno d’amore, conoscenza e cura.
Gaia, da dove vieni? Qual è la tua formazione?
“Arrivo da una formazione classica, ho studiato il latino e il greco e ho divorato letteratura e musica fin da piccola. Le mie nonne sono state le mie maestre culinarie e i miei nonni i miei maestri di vita. Sono cresciuta imparando l’amore per le persone, le piccole cose e la comunità che si crea intorno a un tavolo o a una cucina, ascoltando i racconti di guerra di mio nonno, la vita è le usanze nei tempi passati e spendendo tempo nella natura grazie a una casa di famiglia in montagna a Vetriolo sopra Levico Terme, dove passavamo le vacanze estive e invernali alla ricerca di funghi porcini, di avventure nei boschi e assaporando cibi semplici e latte o ricotta appena fatti”.
Come sei arrivata a New York?
“Sono arrivata per caso all’età di 40 anni, grazie a un regalo di mio fratello”.

In che cosa consiste il tuo business? Cosa lo rende unico?
“Gaia è la Madre Terra, deriva dal greco e nasce dal desiderio di creare una comunità consapevole dei tempi che viviamo e delle tematiche che riguardano bisogni primordiali come mangiare, ma che in realtà richiamano anche la salute, l’ambiente, l’educazione all’altro, il recupero della semplicità e della tradizione della cucina Italiana e del volersi bene. La gente lo rende unico, oltre che l’entusiasmo con cui ricercano il cibo fresco, fatto in casa e ad un prezzo equilibrato”.
Qual è il tuo rapporto con il quartiere in cui sei e la community di cui fai parte?
“Lo scorso giugno siamo arrivati al 226 di East 3rd Street, dopo circa tre anni molto difficili: aver chiuso la location precedente, un vero e proprio ristorante su East Houston (aperto per quasi dieci anni a partire dal febbraio 2011), è stato uno shock e vivere un harassment come donna sola a New York (la ragione per cui ho chiuso) è stato molto doloroso. Sono grata alla comunità che è nata intorno al Gaia Italian Café, la stessa che con amore ha creato le basi per poter ritornare con una nuova piccola location e questa volta solo per asporto. Credo che nella vita il rapporto con il quartiere sia fondamentale, ai fini di sviluppare un senso di appartenenza e di amore per quello che viviamo e che ci circonda”.
Qual è il piatto o la pietanza che consigli di provare a un lettore che non è mai stato lì?
“Di solito non consiglio mai: lascio che siano le persone a decidere e seguire il loro intuito. La nostra cucina si basa non su intellettualismi, ma sul cuore e sulla dieta mediterranea: variegata, bilanciata, rispettosa della salute del corpo e del territorio”.

Che cosa ti spinge a fare quello che fai?
“Il desiderio di equilibrio fra tutti noi e la Terra. Viviamo un tempo storico che non possiamo più ignorare, ognuno di noi è chiamato a fare la propria parte anche nell’alimentazione, dobbiamo essere capaci di rinunciare a tutto quello che non è necessario e iniziare ad acquistare i prodotti e a nutrirci in modo consapevole”.
Chi ti accompagna in questa avventura?
“Fin dalle sue origini, il Gaia Italian Cafe si è rivolto alla formazione di giovani e di donne di ogni cultura che avessero la passione per la Cucina e un desiderio di dare amore alla comunità. Studiare nelle scuole dedicate in New York può essere molto costoso e spesso troppo intellettuale, mentre l’esperienza incrociata tra Il cibo e il pubblico, in uno small business, permette una visione d’insieme molto piú equilibrata. In fondo la cucina insegna molto sulla vita e su come essere parte di una comunità. La cucina insegna a correggere gli errori, a non perdere fiducia, a chiedere aiuto se necessario: ogni ragazzo/a che entra in cucina viene chiamato a confrontarsi con azioni e modalità che richiedono attenzione, logica, creatività, osservazione, disciplina e tanto tanto amore. Sono 13 anni che ad esempio il mio chef, Kevin Espinal, è con me. Arrivò quando aveva 16 anni ed ora è un papà con due bambine, un amante della cucina e il mio braccio destro, che mi sostiene nell’attività e che ogni giorno è in prima linea nel servire i clienti con amore”.
Quali prodotti importati non mancano mai sulle tue mensole?
“Quelli legati alle memorie d’infanzia e a semplici combinazioni come la pasta e i sughi di pomodoro”.

Come si riflettono i tuoi studi umanistici nella vita che hai deciso di condurre?
“In fondo essere dietro a un bancone e offrire da mangiare è come essere osservatori del mondo e delle esigenze altrui: ogni cliente arriva con la propria storia e il proprio bagaglio e quando ricerca o sceglie un piatto esprime molto della sua personalità, come ogni grande o piccolo romanzo. A volte anche lo stesso nome dato ad alcuni piatti porta con sé un significato d’amore come il panino “Bubi”, dedicato a un caro amico morto giovane, o “CiaoPapi” dedicato a mio padre che è scomparso improvvisamente nel 2019”.
Quale zona di New York ami?
“Non saprei come rispondere… Ho un rapporto conflittuale con questa città che pretende molto dai suoi cittadini in termini di costo della vita, ritmi ed episodi quotidiani. Ho per tanti anni ho osservato da dietro un bancone dinamiche crudeli, ho visto occhi di carnefici e vittime e ascoltato storie di sogni e realtà. Forse quello che amo di New York è la storia di ognuno al di là del suo paesaggio”.