Le storie non sono tutte uguali e non hanno tutte lo stesso valore, anche se si assomigliano. E senza senso critico, che si basa sulla conoscenza e la comparazione, queste differenze non si è in grado di riconoscerle e capirle e quindi si finisce per sbagliare le valutazioni. Le storie di immigrazione per esempio, sono milioni, ma tutte diverse ed hanno peso e valore diversi. Considerarle tutte della stessa importanza è sbagliato.
Prima di raccontavi la mia storia, vi racconto quella di Shayanne Gal, nata in Israele nell’agosto del 1993. Nel 1998, quando aveva 5 anni, suo padre è riuscito ad ottenere un visto H-1B (lavorativo) che gli ha permesso di mettere piede legalmente su suolo americano con sua moglie e sua figlia. Tenete a mente la difficoltà di ottenere dall’estero un visto di lavoro (che deve essere giustificato da motivazioni valide) senza avere conoscenze di nessun tipo. Dopo un anno di permanenza con visto, la famiglia ha potuto fare richiesta per la carta verde, il documento che conferisce lo stato di residente permanente, condizione necessaria per poter ottenere la cittadinanza. Ci sono voluti tre anni per elaborare la richiesta che alla fine è stata rigettata per un errore nella presentazione dei documenti. Tempo e soldi buttati, altro tempo da aspettare per ripresentare la richiesta, nuove spese da affrontare per rifare tutto da capo, assistiti da un professionista. Stavolta non ci sono errori, bisogna solo aspettare. I tempi di elaborazione delle richieste sono determinati da diversi fattori e quindi variano; pensate che a maggio del 2020 l’emissione di carte verdi era talmente arretrata che si stavano appena distribuendo quelle richieste nel 1996. E, ovviamente, il papà di Shayanne ha dovuto continuare a rinnovare il suo permesso di soggiorno, operazione costosa che ha compiuto ben 5 volte nei 12 anni totali di attesa, mentre lo status di Shayanne e sua madre non consentiva loro di poter lavorare legalmente. A questo punto della storia Shayanne è al liceo e la condizione in cui vive è quella di assoluta precarietà: in qualunque momento può essere rispedita a casa con tutta la famiglia, dovendo interrompere gli studi e soprattutto il processo di costruzione del suo futuro, fatto di investimento di tempo, soldi ed energie per il famoso perseguimento della felicità, diritto inalienabile dell’essere umano. Non è proprio cosa da poco, soprattutto se siete di quelli che crede fermamente nella filosofia “insegui i tuoi sogni”: come si fa a sognare quando ti tengono costantemente sveglio?
Per fortuna, ben sei anni dopo, l’USCIS (Servizio Cittadinanza ed Immigrazione degli Stati Uniti) nel 2010 approva lo status di permanent resident: metà del viaggio verso la naturalizzazione è compiuto. Metà. Migliaia di dollari e 12 anni di vita e sono ancora a metà viaggio. Ma almeno adesso hanno accesso al Social Security, possono lavorare legalmente, e possono viaggiare liberamente, cosa che prima non potevano fare. Ma l’obiettivo è essere cittadini a pieno titolo, è avere riconosciuti i propri diritti, è poter votare. Adesso devono passare altri 5 anni in cui devono dimostrare di avere un “buon carattere morale” e devono regolarmente pagare le tasse se non vogliono rischiare l’espulsione. Shayenne si iscrive all’università e una volta conseguita la laurea nel 2015 può finalmente fare richiesta di cittadinanza con sua madre e suo padre. Il processo di naturalizzazione prevede: una tassa di $725 (cifra corrente), una sessione biometrica (in cui si registrano le impronte digitali) e un test con cui si verificano la conoscenza dell’inglese parlato e scritto e delle nozioni base di politica, storia e geografia Americana. Per la famiglia Gal ci sono voluti altri due anni. Un giovedì mattina del 2017, dopo 19 anni di viaggio, Shayanne si è seduta in una sala delle cerimonie con altre 117 storie: “Nonostante le nostre differenze, eravamo uniti dal sacrificio affrontato, dal percorso compiuto e dall’amore per gli Stati Uniti”.

Grand Canyon National Park, wikimedia.commons)
Questa è la storia di Shayenne. La mia non ha niente a che fare!
Nel 2017 a Roma, faccio richiesta di carta verde per matrimonio. Sono sposata con un italiano con doppia cittadinanza, nato e cresciuto in Italia, mai vissuto in America (visitata solo d’estate per qualche anno), ma figlio di madre americana. Anche noi abbiamo avuto problemi con un consulente incompetente che ci ha fatto buttare soldi e ritardare il processo, ma siamo stati così fortunati da poter contare sulla rete familiare: genitori che ci hanno aiutato economicamente e cugine negli Stati Uniti che hanno addirittura garantito con responsabilità legale nei miei confronti (le finanze di mio marito non garantivano a sufficienza per me e quindi ho avuto bisogno di uno sponsor). Nello stesso anno ho ottenuto la carta verde, ho spedito 5 pacchi, ho fatto 4 valige e sono stata ospitata per 7 mesi dai parenti di mio marito nel Connecticut. Dopo tre anni (e non 5, perché per matrimonio i tempi sono più brevi), a giugno 2020, nel pieno di una pandemia, ho potuto fare richiesta di cittadinanza. A maggio 2021 ho ricevuto appuntamento per la sessione biometrica, a giugno ho fatto il test e il 15 luglio 2021 anche io mi sono seduta in una sala delle cerimonie, nel Jacob K. Javits Federal Building a Manhattan, e ho giurato fedeltà agli Stati Uniti d’America insieme ad un’ottantina di persone.
In 4 anni e un malloppo di soldi (che ho sudato l’anima per mettere da parte, ma mai quanto altri) ho acquistato una cittadinanza, con un processo che è sembrato quasi un diritto, avendo seguito alla lettera le richieste per ottenerla. C’è una frase del responsabile che ci ha accolto e spiegato cosa stava per succedere che mi ha colpito; una delle prime cose che ha detto è stata: “Tranquilli, potete rilassarvi, a questo punto non avete più nulla da temere”. Era chiaro che non stava parlando a me.
Questi due viaggi hanno una valenza completamente diversa e se raccontassi una terza storia, fatta invece di violenza, di diritti base negati, di torture e abusi, di documenti sequestrati, di fughe, di illegalità forzata, di povertà, mancanza di mezzi, capacità e conoscenze, nella quale la cittadinanza americana rappresenta letteralmente una possibilità di vita, allora queste due storie varrebbero ancora meno.
Per questo mi sono sentita in imbarazzo quando sono stata sommersa di festeggiamenti e congratulazioni per aver ottenuto la cittadinanza. C’è chi addirittura mi ha detto “brava”! Ci tengo a precisare che apprezzo, ringrazio, riconosco il senso e le intenzioni delle parole usate e che sono ovviamente consapevole del valore della cosa in sé, ma se a me si riserva questo livello di festeggiamenti e congratulazioni… cosa dire a Shayanne o a chi questa naturalizzazione garantisce i diritti minimi?
Non ho festeggiato la mia cittadinanza non perché non la ritengo importante, ma perché tutto, per essere valutato correttamente, va messo in prospettiva: ho preso la cittadinanza perché potevo, perché è un valore in più, perché sto vivendo negli Stati Uniti e voglio votare, perché è una plus e non perché la mia vita e la mia libertà dipendevano da essa, per questo va celebrata in modo appropriato.
Festeggerò sicuramente di più questo novembre, quando da vera americana riceverò l’adesivo “I voted!”.