Non sono mai stata una fan dei Beatles, ma durante una breve vacanza natalizia a New York nel 1980 acquistai l’album “Imagine”. John Lennon era stato assassinato da poco tempo, e la sua musica aveva preso un significato più profondo. Tornai a Roma con il nuovo album e, per motivi che con Lennon non avevano nulla a che fare, l’intenzione di trasferirmi a New York.
Entro otto mesi riuscii ad iscrivermi al programma di Ph.D. in sociologia a Columbia University, chiudere casa, lasciare il lavoro, salutare famiglia e amici, e partire per la città dove, ero sicura, sarei stata più felice che a Roma. Quello che non avevo calcolato bene erano stati i soldi. Iscritta all’università fuori tempo massimo per fare domanda di borse di studio, non avevo che i miei risparmi per mantenermi agli studi. Quando finalmente feci i miei calcoli capii che mi sarebbero bastati per un mese.
Un’amica, che non era a New York, mi sistemò a casa dalla madre per le prime due settimane. Nel weekend, andai con i miei ospiti nella loro casa al mare sull’isola di Fishers Island, in Connecticut, un posto così esclusivo che era aperto solo a chi aveva proprietà sull’isola. William Hurt, attore reso famoso da Body Heat, ci veniva a casa del nonno Henry Luce, Anthony West, figlio di Rebecca West e H.G. Wells, ci abitava tutto l’anno.
Fui fortunata. Amici di amici cercavano una au pair a New York. Feci un breve colloquio sulla spiaggia con il padre dei bambini di cui avrei dovuto occuparmi, un uomo di mezza età piccolo di corporatura, che mi fu presentato come Al. Mi assunse sul posto, chiedendomi se potevo cominciare la settimana entrante. L’indirizzo era 1 West 72nd Street, proprio su Central Park, e Dakota il nome del palazzo. Lo stesso dove viveva John Lennon.
Entro pochi giorni dal mio arrivo ascoltai la storia di come John Lennon era stato ucciso dalla voce dell’unico testimone oculare, a parte Yoko Ono: Josè, portiere Colombiano. Il delitto avvenne proprio all’entrata del Dakota, un imponente palazzo in stile falso gotico francese della fine dell’800. L’assassino sorprese John e Yoko mentre rientravano a casa, sotto le grandi arcate che separano la strada da un enorme cortile interno. Josè era nella guardiola, fece in tempo solo a soccorrere John morente, sporcandosi del suo sangue.

Josè diventò il mio angelo custode e, come tutti i portieri, un grande informatore. Josè amava più Gillian che Al, i miei datori di lavoro. Anch’io. Al, o Albert Maysles, morto nel 2015, era un documentarista famosissimo, da culto. Aveva girato, con il fratello David, Grey Gardens, sulla vita di due eccentriche Bouvier, zia e cugina di Jackie Kennedy, e Gimme Shelter, sul tour americano dei Rolling Stones, durante il quale i Maysles filmarono un assassinio in diretta. Albert era un uomo molto preso da se stesso. Sua moglie Gillian, una psicoanalista, era il contrario: espansiva e generosissima con tutti. Era figlia di John Walker, grande curatore artistico e direttore della National Gallery a Washington e di una aristocratica inglese. Con Jackie Kennedy era andata a scuola.

Io vivevo in una stanza all’ultimo piano del Dakota, dove un tempo erano gli alloggi della servitù. Le stanze erano state tutte rimodernate e servivano come stanze per ospiti, studi, o camere oscure. A volte la sera percorrere i corridoi di quel piano mi metteva un po’ d’apprensione. Non potevo non pensare a Rosemary’s Baby, film al quale il Dakota aveva prestato solo gli esterni, ma al quale era rimasto associato, almeno nella mia mente.
I Maysles vivevano al primo piano. Qualche volta mi trovai in ascensore faccia a faccia con Lauren Bacall, che viveva nella mia stessa ala. Lei, bellissima e regale anche se molto anziana, mi regalava dei sorrisi infiniti. Nureyev, anche lui nella mia ala, non mi ha mai sorriso, o forse si, ma non si vedeva sotto il pesantissmo cerone bianco.
Un giorno Gillian mi chiese se volevo accompagnare la piccola Rebekah alla festa di compleanno di Sean Lennon, che compiva sei anni. All’ingresso dell’appartamento, Yoko Ono accoglieva gli ospiti. Pallidissima, tristissima, tutta in nero, faceva dei saluti impercettibili. Sean sembrava felice, come tutti i bambini della sua età alla propria festa di compleanno. Circondato di regali, faceva a sua volta regali ai piccoli invitati.
Lanciai uno sguardo veloce ad un affresco di Yoko e John in posa da Adamo ed Eva con un albero alle spalle. O almeno questa è l’immagine che ho nella memoria. Restammo nel vasto ingresso solo poco tempo, perché tutti gli ospiti furono portati all’appartamento del vicino: Warner Le Roy, proprietario del ristorante Tavern on the Green e nipote di uno dei Warner Brothers. Le Roy aveva un suo cinema in casa, incluse poltrone di velluto rosso. Proiettarono “Il Libro della Giungla”. Io guardavo più Sean che lo schermo. Lui si divertiva, come tutti gli altri bambini.