Un nuovo nome prestigioso arricchisce l’albo d’oro degli “Alumni dell’anno” dell’Università di Parma: è quello di Stefano Albertini, Direttore della Casa Italiana Zerilli-Marimò e Professore di Italiano alla New York University (e columnist della Voce d New York), insignito del premio Alumnus dell’anno 2020. La cerimonia si è svolta il 24 novembre in Aula Magna (non aperta al pubblico ma in diretta streaming a causa delle disposizioni legate all’emergenza coronavirus), dove Stefano Albertini ha ricevuto dal Rettore Paolo Andrei il riconoscimento istituito nel 2018 dall’Ateneo e dall’Associazione Alumni e Amici dell’Università di Parma, presieduta oggi da Annamaria Cucinotta, per rendere omaggio ai laureati che si siano particolarmente distinti nel loro percorso professionale.
Giunto alla terza edizione, quest’anno il premio va a una delle figure di riferimento dell’Italianistica e della sua diffusione e propagazione nel mondo, un vero e proprio ambasciatore della cultura e storia italiane a livello internazionale, che non ha mai interrotto i contatti con la città e l’Ateneo di Parma, dove si è laureato nel 1987 in Materie Letterarie.
«A Parma scoprii presto che il valore di un ateneo si misura sulle persone», spiega Stefano Albertini nel ripercorrere il suo passato da studente, il sostegno dei dei tanti maestri, la scelta di intraprendere il proprio percorso professionale negli Stati Uniti. Dal 1998 dirige a New York la Casa Italiana Zerilli-Marimò, nata per diffondere la cultura italiana al di fuori dei confini nazionali: «La missione della Casa, e di riflesso la mia, è più di favorire un dialogo culturale che di promuovere la cultura italiana – sottolinea -. La cultura italiana non ha infatti bisogno di piazzisti perché è già ottimamente piazzata, soprattutto a New York, ma ha bisogno di essere liberata dagli stereotipi e presentata nella sua complessità contemporanea. Questa è la bellissima sfida che affronto ogni giorno coi miei colleghi e con gli studenti che lavorano con noi». Quindi un invito rivolto ai giovani: «Agli studenti dico di sognare in grande e, se sono appassionati di letteratura, filosofia, musica, arte o cinema si buttino a capofitto a studiare quelle discipline, senza ascoltare quelli che vorrebbero scoraggiarli e indirizzarli a campi di studio più ‘utili’ e immediatamente spendibili sul mercato del lavoro. La Grande Bellezza che noi studiamo è il nostro ritorno al futuro».
L’Alumnus dell’anno 2020, che ha risposto anche alle domande di alcuni studenti collegati via web, è stato introdotto dal Rettore Paolo Andrei, per il quale il legame tra Ateneo e Associazione Alumni «è di straordinaria importanza nel mantenere intatta tutta una serie di relazioni, scambi e rapporti che vanno ad arricchire la nostra comunità come lo stesso professor Albertini dimostra», dalla Presidente dell’Associazione Annamaria Cucinotta e da Michele Guerra, docente di Cinema, Fotografia e Televisione (Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali – DUSIC).
L’appuntamento è stato realizzato anche grazie alla collaborazione della Fondazione Cariparma.
Qui pubblichiamo per intero i discorsi del Prof. Michele Guerra, che è anche assessore alla Cultura del Comune di Parma (il magazine ARTRIBUNE l’ha nominato nel 2019 miglior assessore alla cultura d’Italia) e quello dell’alumnus premiato. Anche La Voce di New York celebra il suo autorevole columnist “Fuori dal Bozzolo”, che come indica la motivazione al premio della sua Alma Mater, è un vero grande “Ambasciatore della cultura italiana nel mondo!”

Stefano Albertini Alumnus dell’Anno 2020
LAUDATIO
di Prof. Michele Guerra
Scrivere una laudatio non è mai semplice, ancor meno lo è quando la profondità scientifica e culturale del suo destinatario incrocia le profondità di una conoscenza lunga anni, che per me ha coinciso prima con il tempo della mia formazione di studioso e poi con l’inizio e il proseguimento di una carriera accademica su cui sempre ho sentito il bisogno del confronto con Stefano Albertini. Per la sua lucidità. Nel senso etimologico del termine, della capacità di fare luce. Teniamo da parte questa parola, lucidità, perché è la prima delle tre che vorrò proporvi per capire chi è il nostro Alumnus dell’anno 2020.
Dopo la laurea con lode in Storia all’Università di Parma e un Master of Arts in Italian Language and Literature alla University of Virginia, Stefano Albertini consegue un PhD a Stanford sotto la guida di uno dei massimi dantisti statunitensi, John Freccero, lavorando sul pensiero di Machiavelli. Come ha scritto lo stesso Albertini, al modo dei clerici vagantes dalla California segue il suo mentore sulla East Coast, dove il Prof. Freccero era stato chiamato a rinnovare e rafforzare i programmi di Italianistica della NYU. Siamo negli anni Novanta del secolo scorso, un decennio che ha segnato una grande espansione per la cultura italiana negli Stati Uniti e Stefano si è trovato nel posto giusto al momento giusto, certo, ma soprattutto, direi, si è trovato nel posto giusto al momento giusto con la testa giusta, con la mente duttile e aperta di chi sapeva muoversi con la stessa disinvoltura tra il rigore della ricerca filologico-letteraria, l’analisi storico-politica dei processi che stanno alla base della nostra complessa e composita identità, lo studio di un immaginario stratificato e pluridisciplinare che lo avrebbe portato fino alla grande tradizione del cinema italiano.

Nel 1994 Stefano Albertini inizia ad insegnare alla NYU, che diventerà, nel corso degli anni, un’estensione del suo agire e del suo pensare, sia nei buildings che attorniano Washington Square Park, sia nello splendore di Villa La Pietra a Firenze, dove Stefano guida e rende unico il programma estivo della New York University. Nel 1998 assume la direzione della Casa Italiana Zerilli-Marimò, nata otto anni prima per l’iniziativa culturale e filantropica della Baronessa Mariuccia Zerilli-Marimò, donna di grande visione e tenacia, che mi capitò di incontrare proprio a Parma insieme a Stefano e nei cui occhi vidi la certezza, ferrea e tenera ad un tempo, che i suoi progetti avevano trovato la persona che sapeva dar loro forma. Oggi la Casa, come viene chiamata da chi la conosce e la frequenta, rappresenta uno dei luoghi irrinunciabili della scena culturale newyorkese, entro ma anche oltre la sua vocazione di luogo di promozione della nostra cultura. Con la direzione di Stefano Albertini, per la Casa Italiana passano le più eminenti figure dell’arte, dell’accademia, del giornalismo e della politica italiana, facendo di quel luogo una fucina di pensiero e confronto che giova enormemente alla didattica e alla formazione dei giovani allievi di NYU. Un modello di ospitalità e dialogo che ho sempre pensato, ogni volta che mi è capitato di fare visita a Stefano, sarebbe utile cercare di riproporre anche da noi, seppur nel diverso ordinamento e regolamento dei nostri atenei pubblici.
La Casa Italiana è un luogo contemporaneo, questa credo sia una, se non la principale, ragione della sua forza. Da questa prospettiva, la guida di Stefano Albertini è stata decisiva, perché occorreva uno studioso e un organizzatore che sapesse portare dentro le forme linguistiche e di comunicazione del nostro tempo, dentro i modelli di interazione utili a coinvolgere i giovani, il patrimonio di conoscenza e ricerca che non cessa, come dev’essere nell’Università, di interrogare il passato. Come ha scritto felicemente Giorgio Agamben nel tentativo di spiegare il contemporaneo, «solo chi percepisce nel più moderno e recente gli indici e le segnature dell’arcaico può essere contemporaneo» e gli storici sono tra coloro che meglio sanno che tra l’arcaico e il moderno esiste «un appuntamento segreto» – così lo definisce Agamben – a cui dobbiamo farci trovare presenti. Ecco la seconda parola che vi propongo: dopo lucidità, contemporaneità. Stefano Albertini è un uomo del contemporaneo, proprio a partire dalla sua formazione storica, dantesca, machiavelliana. Quando scrive di don Mazzolari, delle elezioni americane o di cinema, lo si sente presente a quell’appuntamento segreto e gli si è grati di esserci a nostra volta trasportati.
Consentitemi il ricordo di un docente che ha dato molto a questo Ateneo di Parma e che sono certo farà piacere a Stefano. Ormai un po’ di anni fa, Giuseppe Papagno, storico contemporaneista dagli infiniti interessi, mantovano prestato per molti decenni a Parma, incontrò me e Stefano nel suo studio. Di tutti e due era stato professore e poi amico. Stava lavorando al suo ultimo libro, Viaggio a Taprobana, che si apre con la citazione di un’antica iscrizione sulla fontana della piazza alta di Spoleto. Vi si legge: Bibe viator, bevi viandante. L’acqua, certo, ma anche il sapere e la storia che quella fontana conserva, bevi all’appuntamento segreto tra quella storia e il tuo essere lì, ora. Giuseppe mi disse, giorni dopo, che Stefano gli sembrava proprio il viator che si è abbeverato nel suo viaggio a tanti diversi saperi. Di nuovo, il contemporaneo.
Come columnist per La Voce di New York, Stefano Albertini ha scelto uno splendido titolo di rubrica: Fuori dal Bozzolo. Stefano a Bozzolo ci è nato, nel piccolo paese della provincia mantovana che ha visto, a partire dal secolo XVI, grazie alla protezione dei Gonzaga, instaurarsi una importante comunità ebraica e che ha rappresentato un rilevante esempio di convivenza ebraico-cristiana; il paese che vide parroco don Primo Mazzolari e dove nel 2017 Papa Francesco si è recato per ricordare e rendere omaggio a questa straordinaria figura del Novecento. Nonostante i suoi viaggi, nonostante il suo radicamento americano, nonostante le relazioni, le forme dell’apertura all’internazionalità, Bozzolo è ancora il centro della vita di Stefano. Stefano è “fuori dal Bozzolo”, ma in una qualche misura è forte della certezza che quel Bozzolo è sempre là, che lo aspetta ogni anno ed è orgoglioso di lui. Bozzolo è la casa, è la famiglia, è la vicinanza. Ecco la terza e ultima parola, dopo lucidità e contemporaneità: vicinanza. Stefano Albertini sa essere vicino. Che sia a New York, a Firenze, a Bozzolo, in Spagna, Stefano è vicino. Il che significa saper costruire il proprio mondo in ogni parte del mondo, essere fedeli ad un insegnamento, ad un’eredità, ad una tradizione e saperla tradurre. Il traduttore è qualcuno che sta vicino, ma nell’essere vicino, nel non tradire, sa anche come trasferire il senso profondo delle cose.
Di questa lucidità, di questa contemporaneità, di questa vicinanza, l’Università di Parma è grata al Prof. Stefano Albertini. E a titolo personale, lo sono anch’io.

IL DISCORSO DI STEFANO ALBERTINI
“Io sono il libro che lui ha scritto”
Magnifico Rettore,
Direttore Saglia,
Professoressa Cucinotta,
Professor Guerra,
grazie a tutti voi e all’Associazione Alumni e Amici dell’Università di Parma per avermi voluto nominare Alumnus dell’anno 2020.
Cari e chiarissimi colleghi, studenti e amici che avete la bontà e la pazienza di collegarvi ancora una volta a un evento in streaming e a tenere gli occhi attaccati a uno schermo dopo mesi di didattica, cultura e socialità a distanza, grazie per essere qui con me oggi a condividere la mia gratitudine e la mia gioia per questo riconoscimento prestigioso.
Prologo e dedica
Inizio raccontandovi un aneddoto che ho sentito dal cappellano musulmano della New York University, dove insegno da 25 anni. Negli ultimi anni dell’Impero britannico, il governatore si recò da un famoso professore di studi islamici per informarlo che era stato elevato dalla Corona al rango di Knight Commander of the British Empire col titolo di ‘Sir’. Il professore ringraziò, ma si schernì dicendo che non poteva accettare la nomina se non fosse stata conferita prima al suo anziano maestro elementare. Il Governatore, un po’ sorpreso e un po’ incuriosito, chiese il nome del maestro, un nome che, come previsto, non aveva mai sentito. Un po’ imbarazzato, ma esibendo un diplomatico interesse, il Governatore chiese quali libri avesse scritto il maestro e il professore rispose: “I am the book he wrote. Io sono il libro che lui ha scritto”.
Io oggi mi sento proprio così, come il libro che altri hanno scritto. Prima di tutto i miei genitori, Gianni e Bianca: entrambi insegnanti, entrambi con una passione e un entusiasmo educativo che non ho mai visto in nessun altro. Mio padre ha insegnato agraria nelle scuole professionali per decenni e ripeteva che faceva fatica a credere che lo pagassero per fare un mestiere così bello. Sarebbe stato un pessimo sindacalista, ma è stato un grande docente. Mia madre, maestra elementare come la sua mamma, ha insegnato per quasi quarant’anni. Non l’ho mai sentita lamentarsi dei suoi scolari e ancora adesso quando dà lezione di latino o francese ai figli di qualche amica si illumina mentre spiega il periodo ipotetico o la consecutio temporum. Questo riconoscimento, ovviamente, va soprattutto a loro.
I am the book they wrote
Resisto alla tentazione di menzionare tutti i miei insegnanti, ma da suor Emilia, la maestra d’asilo più dolce e santa che si possa sperare di incontrare al Professor John Freccero, uno dei più originali e acuti dantisti dell’ultimo secolo, tutti hanno lasciato in me una traccia profonda e duratura e un debito di gratitudine che non potrà mai essere colmato.
I am the book they wrote.
Ma io, come tutti voi, ho imparato tantissimo anche dai miei compagni di studio e non solo dai maestri. Oggi li sento qui vicini a me e sento di ricevere questo premio anche a nome loro, che fanno il loro lavoro lontano dai riflettori e in posti meno famosi di New York. Questo premio va anche a Milly e Patrizia che insegnano alle scuole elementari oggi con lo stesso entusiasmo di quando hanno cominciato, va ad Antonella che coordina con creatività e dedizione le attività educative di un ex ospedale psichiatrico. Va a don Paolo, teologo brillante che ha voluto fare il prete dei poveri, prima in Brasile e adesso a Bologna. E va anche a quelli che sulle mie orme sono andati negli Stati Uniti passando per la Virginia: Federica, Beppe e Davide. Il nostro amico Davide Papotti che siete riusciti a riportare a Parma sulla cattedra di Geografia. Ciascuno di loro meritava questo riconoscimento più di me.
I am the book they wrote.
Dopo il preambolo, vorrei scandire il resto delle mie considerazioni coi titoli di quattro film che amo particolarmente: Amarcord (Federico Fellini, 1973), Another Country (Marek Kanievska, 1984), Back to the Future (Robert Zemeckis, 1985), La Grande Bellezza (Paolo Sorrentino, 2013). Questa scansione cinematografica è anche un omaggio al Professor Guerra che ha con eccessiva generosità tessuto le mie lodi e che siede sulla cattedra di Cinema presso la quale feci il mio primo esame universitario
Amarcord
Venire a Parma ha sempre avuto su di me un misterioso potere euforizzante. Per un ragazzo di Bozzolo che si muoveva tra Mantova e Cremona, varcare il Po e ritrovarsi qui era un’esperienza di quotidiana immersione in un’eleganza e in una raffinatezza alle quali non ho ancora fatto l’abitudine. Un’esperienza multisensoriale che condivido ogni estate con i miei studenti americani che, inevitabilmente, finiscono con l’innamorarsi di Parma a prima vista.
Entrare in questo edificio austero e camminare per questi lunghi corridoi mi ha intimidito oggi come quando ci misi piede la prima volta nel 1982, anche perché la facoltà di Magistero (la ‘promozione’ a Facoltà di Lettere e Filosofia sarebbe arrivata un paio d’anni dopo la mia laurea) era un po’ la Cenerentola dell’università, con sedi disseminate da via Jenner a borgo Carissimi passando per questo palazzo e la Pilotta; questa dispersione logistica fece assai bene alla mia forma fisica e alla mia conoscenza di tutti i quartieri della città, se non alla mia autostima. A Parma scoprii presto, però, che il valore di un ateneo si misura sulle persone e non sulla posizione nelle classifiche e l’imponenza degli edifici. E io mi rendevo conto che mentre correvo da una sede all’altra per non perdermi neanche una lezione, stavo godendo di un privilegio impagabile: studiare le cose che amavo con docenti straordinari. Dal prof. Quintavalle imparavo a leggere e capire Caravaggio, il pittore maudit che ancora oggi mi ossessiona e mi stupisce. Dal prof. Pieri imparavo che ‘barocco’ non è una brutta parola e che l’analisi letteraria non è solo intuizione, ma è anche fatica. Il prof. Campari mi faceva scoprire il linguaggio cinematografico che sarebbe diventato uno dei miei ambiti di insegnamento. E il mio maestro, il Professor Giorgio Campanini mi introduceva al rigore e alla passione della ricerca storica e alla scoperta di come le idee si trasformano in azione politica.
Ma l’aula più vivace della mia esperienza universitaria è stata il treno, le vecchie e lente littorine straripanti di studenti e professori che le FFSS avevano il coraggio (o l’ironia) di chiamare ‘Freccia della Versilia’ perché volendo si poteva salire a Verona e scendere a Viareggio, passando per Mantova, Bozzolo e Parma. In quelle carrozze surriscaldate e sovraffollate noi studenti pendolari partecipavamo a seminari interdisciplinari fluidi, veloci e improvvisati e potevamo godere di un rapporto privilegiato e diretto con docenti di tutte le facoltà, da Chimica a Economia, da Giurisprudenza a Filosofia.
Fu proprio durante questi ‘seminari’ che iniziai a rispondere alle domande sul mio futuro professionale dicendo che ‘da grande’ avrei voluto promuovere la cultura italiana nel mondo. Non sapevo esattamente cosa volesse dire. Capivo che insegnare all’estero poteva essere uno dei modi di realizzare quel progetto, ma sapevo che non era l’unico. Quel che era certo era l’importanza strategica di imparare le lingue e fu così che, oltre a seguire diligentemente i corsi di lingua e letteratura inglese e mettermi a studiare per mio conto lo spagnolo, mi presentai all’ufficio relazioni con l’estero dell’università. Ai miei tempi era una stanza polverosa proprio in questo palazzo con due signore gentili ma piuttosto burbere che mi diedero da consultare il bollettino annuale del Ministero degli Esteri e mi dissero che le borse disponibili erano poche e le persone che facevano domanda erano molte… In tutti i miei anni a Parma avevo incontrato solo una studentessa straniera e conoscevo solo un compagno di corso che aveva trascorso un periodo di studio all’estero ma in maniera autonoma rispetto all’università. E questo aureo e provinciale isolamento, cari colleghi e studenti, è l’aspetto che non rimpiango del mio Amarcord, ma è anche quello che è stato rivoluzionato in maniera radicale e irreversibile dallo straordinario processo di internazionalizzazione dell’Università di Parma e di gran parte delle università italiane. Grazie ad Erasmus e a programmi analoghi le università italiane ed europee hanno riscoperto la vocazione globale e ‘vagabonda’ che ne caratterizzò le origini medievali.

Another Country
L’ammonimento evangelico “molti sono i chiamati, pochi gli eletti” dell’ufficio relazioni con l’estero non fu abbastanza per convincermi ad accontentarmi del tepore familiare del mio Bozzolo e della mia adottiva Parma. La decisione di partire non fu né una scelta drammatica, né tanto meno la fuga di un cervello. L’espressione non mi è mai piaciuta soprattutto perché non mi sono mai considerato un ‘cervello’, ma assai più modestamente, qualcuno che ha avuto la fortuna di studiare la letteratura, la storia, la teoria politica, le lingue e tutte le altre discipline come la storia dell’arte, del cinema e della musica che danno senso alla nostra vita, mettendoci a confronto con gli aspetti più esaltanti della creatività umana. Ho sempre pensato, con il senso di inferiorità che la cultura dominante impone a noi umanisti, che i cervelli fossero quelli degli altri: dei colleghi dottorandi e professori delle discipline scientifiche, tecniche ed economiche. Parlando con loro, ho scoperto che anch’essi, però, erano infastiditi, come me, da questa definizione.
Ne ho conosciuti tanti in questi anni: dai medici, biologi e informatici dei miei anni di dottorato a Stanford agli economisti di New York University, l’università dove insegno adesso e nella quale per tre mandati consecutivi si sono avvicendati tre italiani come Direttori del dipartimento di economia. Nessuno di noi era in fuga; per fortuna sono lontani i tempi in cui alcuni nostri connazionali (loro sì geni veri) come Enrico Fermi e Gaetano Salvemini furono costretti a lasciare il nostro paese per le persecuzioni razziali e politiche.
Tra le centinaia di colleghi italiani espatriati, di tutte le discipline che ho incontrato in questi anni negli USA e in altre parti del mondo nessuno si sente migliore di quelli che sono rimasti. Siamo anzi tutti convinti che in Italia, nonostante un sistema che non sempre e non immediatamente riconosce il merito, c’è una stragrande maggioranza di colleghi eccellenti che stimiamo ed ammiriamo proprio perché rimanendo in patria, oltre a studiare e insegnare, devono quotidianamente navigare un mare complicato e a volte insidioso, dando prova di una determinazione quasi eroica.
Sono arrivato negli USA nel gennaio del 1990. Non avevo mai preso un aereo, non ero mai stato in un paese anglofono, non conoscevo nessuno in America. Nonostante il 30 e lode, l’inglese non lo parlavo, anche se ne dominavo la grammatica. Non avevo mai toccato un computer e non possedevo una macchina da scrivere. La mia tesi di laurea l’ho scritta tutta a matita usando pezzi di carta attaccati ai fogli A4. Il ‘taglia e incolla’ per me non era un modo di dire. La Marisa al quarto piano copiava meticolosamente le mie parole in 5 copie con vera carta carbone (non “cc”) e quando trovava un errore appallottolava la pagina e ricominciava. Non avevo idea di come fosse strutturato il sistema accademico statunitense, ma sapevo per certo di non avere i soldi per pagare le salatissime tasse universitarie americane. Nonostante ciò, qualcuno alla University of Virginia volle scommettere su di me e ottenni così una borsa di studio per un Master.
Arrivai a Charlotesville una domenica pomeriggio e il lunedì mi trovai già in aula a insegnare Elementary Italian. La severa coordinatrice, prima di procedere alla mia formazione didattica mi intimò di non parlare mai inglese con gli studenti. “Le lingue vanno insegnate in lingua”, sentenziò non immaginando il sollievo che mi dava quell’ordine. Alla fine del semestre i miei studenti parlavano un italiano decente e a me non venivano più le palpitazioni quando dovevo rispondere al telefono. Il paesaggio della Virginia, così simile a quello verde della nostra pianura fu lo sfondo idillico della mia transizione intercontinentale. Completavano il quadro un campus palladiano, e una biblioteca a scaffali aperti dotata di libri, dischi e video che non chiudeva mai…
Alla University of Virginia ho incontrato il mio primo amico nero e il mio primo amico ebreo; sono andato per la prima volta a una funzione protestante, celebrata da una reverenda che assomigliava un po’ alla mia mamma, con la testa cotonata, gli orecchini e un velo di rossetto. A U.Va. per la prima volta ho visto ragazzi e ragazze che non avevano vergogna o paura di dichiararsi gay o lesbiche. Su un ponticello qualcuno aveva scritto con lo spray “It’s OK to be gay at UVA!” A Charlottesville ho sentito per la prima volta il profumo della libertà e ho assaporato la bellezza della diversità.
A Stanford si sono andati affinando i miei interessi originari e mi si sono aperti nuovi orizzonti. L’università, da sempre all’avanguardia nelle discipline tecniche e scientifiche aveva intrapreso, pochi anni prima del mio arrivo per il dottorato, un potenziamento straordinario delle discipline umanistiche. Solo nel mio dipartimento potevamo contare su due immortali dell’Académie française e sul maggiore studioso di Dante in America, il mio maestro John Freccero. I suoi seminari, le sue conferenze, i nostri incontri per discutere le revisioni della mia dissertazione rimangono per me esperienze uniche e indimenticabili in cui mi è sembrato di cogliere su questa terra un barlume di quella
luce intellettual, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore. (Paradiso XXX, 40-42)
Proprio seguendo John Freccero come un clericus vagans del medio evo mi sono ritrovato nel 1994 alla New York University, dove dopo qualche mese mi è stato chiesto di lavorare per la Casa Italiana Zerilli-Marimò che era stata fondata qualche anno prima da una lungimirante e generosa Signora milanese. All’insegnamento, che non ho mai voluto abbandonare e che rimane il fulcro della mia vita professionale, si sono aggiunte mansioni per le quali le lunghe ore in biblioteca non mi avevano preparato: predisporre un bilancio, sollecitare e raccogliere fondi, mantenere rapporti con alumni e benefattori, coordinare i lavori del collegio consultivo, organizzare e promuovere eventi, dialogare in pubblico con scrittori, registi, politici, artisti, direttori d’orchestra, attori, cantanti e studiosi. Quando, nel 1998 mi venne offerta la direzione della Casa mi ricordai di quei seminari informali sulla “Freccia della Versilia” e di quella risposta sul mio futuro che era diventata realtà a New York in una decina d’anni.
Back to the Future o La grande bellezza
L’anno scorso ho festeggiato il mio anniversario d’argento con New York University e con la Casa Italiana ed ho inevitabilmente azzardato un bilancio di questi 25 anni. E’ indubbiamente un lavoro che mi assorbe completamente e che mi impedisce di dedicarmi alla ricerca e alla scrittura come vorrei, ma è anche un lavoro che non mi annoia mai perché mi costringe a cambiare registro decine di volte al giorno. Torno spesso a casa stanco, ma mai una sola volta annoiato. Anche in questi mesi in cui abbiamo dovuto sospendere tutte le attività col pubblico, io e il mio staff ci siamo reinventati il nostro lavoro trasformandoci in produttori e conduttori radiotelevisivi.
La missione della Casa, e di riflesso la mia, è più di creare un dialogo culturale che di promuovere la cultura italiana, come dicevo ingenuamente a vent’anni. La cultura italiana non ha infatti bisogno di piazzisti perché è già ottimamente piazzata, soprattutto a New York, ma ha bisogno di essere liberata dagli stereotipi e presentata nella sua complessità e nella sua contemporaneità. Questa è la bellissima sfida che affronto ogni giorno coi miei colleghi e con gli studenti che lavorano con noi.

Concludo con due esortazioni: una più rivolta ai colleghi professori e l’altra ai colleghi studenti.
Ai professori dico di continuare con decisione il processo di internazionalizzazione per il quale la nostra università è già all’avanguardia. L’Italia non deve far ‘rientrare i cervelli in fuga’, ma deve approfittare anche della crisi delle università americane, che, a causa della miope e dissennata politica xenofoba dell’amministrazione Trump, non hanno potuto attrarre in questi anni i migliori scienziati e ricercatori del mondo. Facilitate e incoraggiate un’autentica e capillare integrazione di studenti e docenti internazionali nelle nostre comunità accademiche. Le università italiane e l’Università di Parma in particolare hanno le carte in regola per attrarre i più brillanti talenti del globo, e non solo gli italiani in trasferta. Così erano le università di Bologna, Parma e Salerno nel Medio Evo, così erano le corti di Firenze, Mantova e Urbino nel Rinascimento. O torniamo ad essere così o siamo destinati a sparire dall’atlante culturale e scientifico del mondo contemporaneo.
Agli studenti dico di sognare in grande e, se sono appassionati di letteratura, filosofia, musica, arte o cinema si buttino a capofitto a studiare quelle discipline, senza ascoltare quelli che vorrebbero scoraggiarli e indirizzarli a campi di studio più ‘utili’ e immediatamente spendibili sul mercato del lavoro. La bellezza, che in tutte le sue possibili declinazioni e sfaccettature è tra gli oggetti dei nostri studi, ha il potere di evocare ed esaltare il meglio dell’umanità. Posti di lavoro come il mio non sono più un’eccezione; la diplomazia culturale, le public humanities stanno conquistando un ruolo sempre più preminente sia nelle agenzie governative che nelle non-profit che in molte aziende. La Grande Bellezza che noi studiamo è il nostro ritorno al futuro.
Grazie!