Annalisa Menin è una di quelle donne che non si dimenticano facilmente. Ti guarda con i suoi occhi profondi, misteriosi e, a tratti malinconici, eppure così pieni di vita. Racconta e si racconta con grande naturalezza e con la chiarezza disarmante tipica di chi si è guardato dentro a lungo.
Il pubblico la conosce grazie al suo blog “Il mio ultimo anno a New York”, diventato anche un libro, dove Annalisa si è raccontata per diversi anni al suono di “Should I stay or should I go?”. Partire o restare? Dilemma familiare per tanti italiani di base a New York, mai così attuale come in questi mesi di pandemia.
Partiamo dall’inizio: come sei arrivata a New York?
“Sono arrivata a New York grazie ad uno stage organizzato dalla mia università, Ca’ Foscari di Venezia, presso una delle aziende di moda più prestigiose al mondo, Valentino. Una splendida opportunità che ho colto al volo. Ricordo di aver scelto il mio corso di laurea proprio perché prevedeva uno stage obbligatorio all’estero. Tra le location disponibili c’era proprio New York. Per me era un sogno: immaginatevi una giovane ragazza della provincia veneta, genitori operai ed educazione piuttosto rigida. Mi sembrava tutto così irraggiungibile. Eppure vedevo che, piano piano, le cose accadevano e così credevo sempre di più nelle mie possibilità”.
Com’è stato lavorare per una casa di moda come Valentino, uno dei Made in Italy più famosi al mondo?
“Valentino, come tanti altri marchi italiani appartenenti al settore del lusso, rappresenta l’eccellenza italiana nel mondo. Questi marchi sono parte integrante del nostro patrimonio culturale grazie alla loro storia, alla ricchezza e alla qualità dei loro prodotti, e soprattutto grazie a tutte quelle persone che ogni giorno portano avanti i valori fondanti non solo dell’azienda, ma anche di un paese intero: l’Italia.
Lavorare per Valentino per me ha significato proprio questo: far parte di un qualcosa di più grande, e diventare nel mio piccolo, ambasciatrice del mio paese e della sua bellezza. Il mio ruolo aveva davvero poco a che vedere con il prodotto e con la vendita, eppure mi sentivo parte di una squadra ed ero orgogliosissima del mio lavoro. Per questo devo certamente ringraziare le persone che ho incontrato in azienda. Quello che mi porto dietro dall’esperienza sono proprio loro, i miei ex-colleghi, in Italia e negli States. In particolare, tengo molto a citare due mentori per me essenziali, Carmine Pappagallo e Mairead Donnelly, che hanno saputo mostrare un modello di management sano, meritocratico e appassionato”.
Come si vive in una metropoli tanto caotica ma al tempo stesso affascinante come New York? E come sono cambiate le cose con il Covid?
“New York è una città che va domata. Vivere qui richiede un impegno costante, una dedizione continua. Se non si è equilibrati, è un attimo perdere i propri punti di riferimento. E questo l’abbiamo visto anche, e soprattutto, con il Covid-19. Per equilibrio, chiaramente, non mi riferisco solo alla componente mentale. Credo che sia necessario un equilibrio globale per vivere qui: certamente psico-fisico, ma anche intellettuale, finanziario…ecc.
Chi si è trovato in una situazione di disequilibrio causa Covid, ha dovuto per forza di cose fare delle scelte. Devo dire che sono diversi gli amici che hanno deciso di lasciare la città, chi in maniera permanente e chi no, chi verso l’Europa e chi nelle zone limitrofe di New York o ben oltre. Certamente ognuno avrà fatto le proprie valutazioni e non sta a me giudicarle. Di una cosa mi sento però sicura: il momento di difficoltà che stiamo vivendo non durerà per sempre e New York tornerà ad essere ancora forte, in maniera diversa. Del resto, dopo grandi momenti di cambiamento, non ci si può aspettare che tutto torni come prima in maniera immediata. E, forse, non è nemmeno auspicabile che tutto torni come prima. Forse è auspicabile che le cose cambino davvero. In meglio, ovviamente”.
Cosa ti ha spinto a raccontare la tua storia, prima in un blog e poi in un libro?
“Si può morire in due modi: per morte naturale e per dimenticanza. Non volevo che nessuno dimenticasse Marco, io per prima. E non sapevo come fare. Così mi sono detta che volevo avere un luogo di ritorno, un posto fisico, un libro, che nessuno avrebbe mai potuto cancellare nel tempo. È così che ho scoperto la bellezza della scrittura, che rende indelebili le emozioni. Una volta che sono scritte, non si possono più cancellare.
In questi mesi di pandemia, mentre lavoravo a “Il Traghettatore” mi è capitato molto spesso di ripensare a questo concetto, e mi sono resa conto che la mia esigenza di non dimenticare continua ad essere fortissima anche oggi, a distanza di quasi 7 anni dalla sua morte. È come se continuassi a vivere per due, e tutti gli obiettivi che io raggiungo, li raggiunge anche lui”.
Parlami di lui, parlami di Marco, il tuo colpo di fulmine, la tua metà, che diventerà tuo marito di li a breve. Quanto ha influito la vostra relazione sulla tua crescita personale?
“Marco è arrivato come un fulmine a ciel sereno. Era letteralmente il mio primo giorno a New York e mi ero riproposta di passare in azienda (Valentino n.d.r.) di sabato per vedere la postazione e assaporare l’esperienza che stava per iniziare. Marco era al lavoro quel giorno con altri colleghi e per me è stato colpo di fulmine immediato… ricordo ancora il nostro primo espresso insieme, con macchinetta Lavazza.
Ci sono istanti che non si dimenticano mai, ci sono istanti che durano una vita.
La nostra relazione ha influito tantissimo sulla mia crescita personale, e per certi versi continua a farlo. Marco per me era un vero e proprio “partner”, condividevamo tutto a livello personale e business e questo mi piaceva molto. Avevo l’impressione che insieme potessimo essere invincibili. Non ho ancora ritrovato un uomo capace di darmi quello stesso equilibrio, quello stesso supporto. Mi manca la mia metà. Ma prima o poi la ritroverò, mi auguro”.
È così che è nato anche Remembering Marco?
“Esattamente!
Remembering Marco è un’iniziativa che ogni anno permette ad uno studente o studentessa di partecipare ad uno stage a New York per 6 mesi, estendibili a 12. Anche questo, un modo per omaggiare Marco ed il suo percorso, e anche per dare ad altri giovani studenti la stessa opportunità che noi abbiamo avuto a nostro tempo. Per me questo aspetto di “give back”, di dare indietro, è sempre stato fondamentale, e continua ad esserlo. E questo l’ho imparato proprio qui negli States, dove questo concetto è molto presente nella vita di tutti i giorni, a livello personale e professionale.
Quest’anno, a causa del Covid, è stato impossibile procedere alla selezione del nuovo partecipante, e così sto lavorando a qualcosa di diverso”.
Dopo aver raccontato la tua vita a New York e dopo l’esperienza Valentino, ti sei nuovamente evoluta, fondando la tua “The Yellow Tom”, un’agenzia creativa specializzata in branding e comunicazione. Se dovessi spiegare in poche parole di cosa ti occupi, come lo faresti?
“Lo spiegherei così: aiuto persone ed aziende a raccontarsi al meglio, a far arrivare il loro messaggio, la loro mission, la loro ragione di vita attraverso un immagine ben definita e dei contenuti in linea con i loro valori.
Tutti noi abbiamo bisogno di averla (una ragione di vita n.d.r.). Dopotutto, è quella cosa che ci fa alzare al mattino, che ci da la motivazione, la carica. E se non ce l’hai o non è forte e definita, si fa fatica a vivere la quotidianità, figuriamoci a fare grandi cose. E questo vale tanto per le persone, quanto per le aziende. Il mio compito è di trasformare questi concetti in azioni concrete, creando o ripensando di fatto le basi di un Brand, e tenendo costante al contempo il dialogo con la community di riferimento. Siamo in un momento cruciale a livello comunicativo: non si tratta ormai più di trovare dei clienti, ma di costruire delle community di persone che crescono insieme al Brand e ne sposano la cultura”.
Che differenze trovi tra i tuoi clienti italiani e quelli americani e internazionali?
“Una su tutte: il diverso peso dato all’investimento in comunicazione. Le aziende americane, in particolare, sono molto consapevoli dell’importanza di aver un’ottima immagine di brand, oltre che un piano marketing costruito intorno agli obiettivi e alla mission aziendale. L’aspetto comunicativo viene spesso prima di tutto il resto, mentre le aziende italiane tendono ad avere budget molto più ridotti e mettono altre aree di business in priorità”.
Il nome della tua agenzia, come nasce? È curioso
“Da mia madre. Volevo fare un omaggio a lei che, se ne avesse avuto l’opportunità, sarebbe certamente diventata una grande imprenditrice. Si chiama Tommasa ed è da sempre per me una figura di riferimento. Così ho ripreso parte del suo nome, il colore giallo che è diventato nel tempo il mio segno distintivo, e il pomodoro, un simbolo riconoscibile ed immediato. Così è nata The Yellow Tom”.
Come sei riuscita ad arrivare fin dove sei arrivata? Impegno, forza, dedizione e?….
“Ho dovuto imparare a portare le “lenti allegria”, hai presente Woody (Allen n.d.r.)?
A parte gli scherzi, la mia tecnica è sempre la stessa: non mollare mai, rischiare, guardare in la e dare il giusto peso alle cose.
Ah, e poi tanta arte, che mi rende sempre enormemente felice, e poi la scrittura, i viaggi e ovviamente, la famiglia e gli amici. Sono queste le componenti del mio personalissimo equilibrio”.
Qualche anticipazione sul tuo nuovo libro “il Traghettatore”?
“Arriveranno presto. Per ora, posso solo dire che verrà pubblicato da Giunti e che è una storia che toccherà molte persone.
Chi non ha avuto un traghettatore o una traghettatrice nella vita?”
Ultima cosa, che consigli dai ai giovani? Si dice che il treno passi una sola volta nella vita
“Di non aspettare. Qualsiasi cosa vogliano fare, che inizino e aggiustino il tiro in corsa. E poi che trovino dei punti di riferimento, dei mentori, non per forza a portata di mano. Possono essere anche lontanissimi e irraggiungibili, purché siano in grado di ispirare. Le persone che raggiungono il successo hanno molto spesso molti tratti comuni: e allora, leggete le loro biografie, studiate come parlano, cosa fanno nel tempo libero, che cause adottano. Sarà un modo per crescere”.
Tu parli spesso dei tuoi mentori infatti…
“Certo. Da soli non si va da nessuna parte, e così avere qualcuno con cui confrontarsi e crescere è essenziale. Il mio punto di riferimento, da diversi anni è Maurizio Marchiori, un vero guru del marketing (tra le menti creative della Diesel di Only the Brave). E con lui tanti altri, uomini e donne che hanno saputo ispirarmi e spronarmi, e che credono in me forse più di quanto io stessa faccia.
Insieme a Maurizio abbiamo creato una joint venture che unisce le nostre due agenzie, la mia The Yellow Tom, e la sua Emme Emme, con l’obiettivo di fondere due mondi diversi: estremamente creativo, intuitivo e poliedrico quello di Maurizio, strategico e molto più razionale il mio. Ci compensiamo e arricchiamo a vicenda e sono certa che nel lungo periodo sapremo supportare dei bellissimi progetti insieme, perché è proprio nella diversità, nella complementarità che nascono le cose più interessanti. Al nostro fianco un team molto capace ed internazionale, che ci segue e supporta.
Se penso a quando giocavo a fare la manager, da adolescente, seduta sulla scrivania di mio fratello, di strada ne ho fatta parecchia, eppure ce n’è ancora tanta, tantissima!”
Il tuo sogno più grande?
“Essendo sempre divisa tra business e personale, tra ragione e sentimento, te ne do due: salire sul palco di Ted Talk e poter raccontare la mia storia, e avere una mia famiglia. Questi due per ora, ma ne ho ancora tanti, tanti altri, e spero di realizzarli tutti, piano piano, e di tener fede ad una promessa fatta a Marco.
Intanto continuo a lavorare, divisa tra New York e l’Italia. A metà tra questi due mondi.
Ah, e poi l’Amore. Ma per questo c’é il Traghettatore…”