Questa puntata di “American Dream, Italian Way” è stata realizzata grazie al sostegno di Associazione Culturale Italiana NY.
Martedì mattina, giornata nuvolosa a New York. Siamo all’imbarcadero di Weehawken in New Jersey per prendere lo yacht che avrebbe portato la ACF Fiorentina e il suo nuovo presidente vicino alla statua della libertà per ammirare dal mare New York.
Nonostante i nuvoloni minacciosi di pioggia, Rocco Commisso arriva con un sorriso solare, con accanto il suo avvocato di fiducia e dietro tutta la squadra Viola con allenatore e accompagnatori. Nel salutarci, ci dice: “Grazie per essere venuti, però l’intervista non so se riusciremo a completarla, ci sono troppe cose da fare…”.

Già, durante la breve crociera sono state presentate le nuove maglie con lo sponsor Mediacom e c’erano tanti giornalisti con telecamere presenti per riportare anche in Italia la nuova Fiorentina di Commisso pronta per affrontare la A.
A noi certamente interessano le ultime gesta dell’imprenditore italo-calabro-americano, ma non eravamo venuti per accontentarci delle dichiarazioni strappate, tra una foto e un video, sulla sua avventura nel calcio italiano. Noi eravamo venuti perché avevamo individuato Rocco Commisso come personaggio per far seguito alla rubrica “American Dream, Italian Way”. Volevamo un personaggio che potesse raccontarsi innanzitutto attraverso il suo carattere, di come nella sua vita fosse stato determinante per il successo in America. E così abbiamo fatto capire agli efficaci pr ingaggiati da Commisso che La Voce non avrebbe partecipato alla mini crociera se il loro boss non si fosse fermato con noi per una “sit down interview” per il tempo necessario.
Alla fine, pur con qualche interruzione, Commisso è rimasto a parlare e rispondere alle nostre domande per quasi 40 minuti su un’ora e mezza di navigazione. L’intervista che vi proponiamo è la fedele riproduzione di quello che siamo riusciti a fargli raccontare della sua vita e soprattutto del suo carattere.

Una nota ancora prima di lasciarvi con le domande e le risposte: nell’intervista noterete che ci diamo del tu, anche se con Commisso era la prima volta che ci parlavamo. Il motivo è perché Rocco ci ha messo subito a nostro agio e in modo molto caloroso ha voluto parlarci come se stesse chiacchierando con vecchi amici del Bronx.
Infine aggiungiamo: nel modo di esprimersi, di connettersi con l’interlocutore che ha davanti, il miliardario presidente padrone di una delle più grandi compagnie di telecomunicazioni (Mediacom), e della squadra dei Cosmos oltre che della Fiorentina, con due lauree dalla prestigiosa Columbia University, ha mostrato tutta la genuinità che aveva da ragazzo giunto in America dalla Calabria agli inizi degli anni sessanta. Commisso parla e si esprime come uno di quei personaggi usciti da un film di Martin Scorsese. Ma questo lo diciamo per valorizzare la genuinità del personaggio che abbiamo incontrato: un uomo senza maschera. Per ribadire quindi, la forza del carattere di questo “self made man”, che pur andando in una prestigiosa Ivy League, dove ti insegnano tanto e vai soprattutto per le connections che ti servono nella vita, ha evitato che finissero per togliergli anche l’essenza e la purezza di quel carattere. Commisso invece resta Rocco, l’originale, il ragazzo calabrese venuto dal Bronx. Con quel carattere determinante a conquistare tutto quello che ha raggiunto grazie ai valori trasmessi dalla sua famiglia.

Prima di tutto la passione del calcio, sappiamo che lei arrivò dall’Italia da bambino, ma quindi le è nata qui o già era esplosa in Calabria?
“In Calabria già tiravamo calci al pallone, era l’unico sport possibile per me. Avevo sette, otto, nove anni e quando era inverno, giocavamo davanti alla stazione. Mentre d’estate in spiaggia”.
Quindi la passione nasce in Calabria, e tifava per quale squadra? il Catanzaro? La Reggina? Il Cosenza?
“No e come ci andavo alla partita; mio padre era già qui negli USA. Io avrò visto al massimo due o tre partite in Italia in vita mia, mi ricordo la nazionale a Udine e l’Inter, non mi ricordo con chi ha giocato, a San Siro”.
Commisso, che in questa intervista alterna l’italiano all’inglese, ci dà del tu e l’atmosfera diventa così calorosa che anche noi gli diamo del tu.
Adesso la tua squadra favorita ovviamente è la Fiorentina, l’hai comprata, però quale era la squadra italiana per cui tifavi fin da ragazzo?
“Eh ma tu lo sai, perché me la fai questa domanda? Su dai, lo sai: era la Juventus! Erano i tempi di Sivori, Charles, Boniperti, Nicolai… e ho cominciato ad appassionarmi al calcio con loro, erano i più bravi”.
E chi tifavi dal Bronx?
“No, ancora ero in Italia, tifavo Juve quando ero bambino”.

Allora la Juventus era la squadra del cuore che tu tifavi da piccolo, dopodiché sei venuto in America, hai cominciato ad avere altre passioni. Sono sicuro che non era solo il calcio: quale sport americano ti piace di più?
“Il calcio! L’ho giocato all’università. Quando sono arrivato in Pennsylvania dalla Calabria, è stato il primo anno in vita mia che ho giocato e che non ho lavorato. Ho provato tre sport, il baseball, il football e dopo basketball. Il football mi piaceva di più per le botte che si davano. Poi mi è iniziato a piacere il boxing, ma un anno dopo, ho cominciato a lavorare. Sport non ne ho fatto più, in high school mi sono dovuto arrangiare. Giocavo un pochino a palla a mano col muro, ma poi lavoravo quaranta ore a settimana e non avevo tempo”.
Quaranta ore a settimana mentre studiavi?
“Quaranta ore a settimana con mio fratello, lui aveva un luncheonette, come un diner, che dopo trasformammo in una pizzeria”.
E tutto questo nel Bronx?
“Sì, nel Bronx, 238th street, il posto era chiamato Pizza Time”.

Fratello più grande o più giovane?
“Era mio fratello maggiore, è scomparso dieci anni fa. Io ho fatto le scuole, lui non ci andò mai. Mio padre venne negli USA nel 1956, e poi mio fratello, a quindici anni, lo raggiunse nel 1958”.
Ah, capito. Loro sono arrivati prima, e poi tu col resto della famiglia?
“Sì, con mia madre e le mie due sorelle: arrivammo nel 1962. Poi mio padre lasciò la Pennsylvania e mio fratello comprò questo piccolo posto, appunto una specie di diner (un caffè-ristorante con un menù molto semplice, ndr). Allora veniva chiamato ‘luncheonette’. Poi lo convertimmo in una pizzeria”.
Sarà stata una delle prime pizzerie a New York…
“No no, c’erano già le pizzerie ma la nostra fu la prima ad introdurre il ‘delivery’, la consegna a domicilio. E diventammo la più grande pizzeria con consegna a domicilio della zona. L’errore che feci è che allora credevo che tutta l’America fosse il Bronx! Così furono poi Pizza Hut, Dominos, e nessuno dei fondatori è italiano, a fare i soldi con il prodotto italiano, perché noi italiani eravamo tutti nella stessa zona, non volevamo muoverci, insomma non eravamo imprenditori, come lo sono invece gli Americani”.
A diciotto anni però finalmente vai a studiare alla Columbia University.
“A diciassette”.
A diciassette, con la borsa di studio. Ed era legata allo sport?
“La verità è che a Columbia ti accettano con la borsa di studio se non hai i soldi. Ma pure se sei il più bravo ragazzo al mondo in uno sport, se la tua famiglia è gente ricca non puoi prendere la borsa di studio. Questo è tipico nel mondo di Ivy League di Harvard, Yale, hai capito? E’ il loro modo di fare business: hai soldi, paghi. Non hai soldi, ci pensiamo noi ad aiutarti finanziariamente”.

Chi ti spinse a studiare? Di solito le famiglie italo americane non mettevano lo studio come priorità per i loro figli…
“Era mio padre che spingeva… Fin dall’inizio quando arrivai in America. Il giorno che sono arrivato in Pennsylvania, avevo perso un anno di scuola perché anche se ero stato già promosso in prima media non avevo poi fatto l’esame di ammissione, appunto perché dovevo partite per venire in America. Così non facendo l’esame, ripeto la quinta, anche se l’avevo già fatta. Quando arrivo sono un anno indietro. Di solito quando si arrivava in questo paese, già ti mettevano un anno indietro se non parlavi l’inglese”.
E quindi qui devi ripetere la quinta elementare.
“No, perché mio padre insiste col preside della scuola e mi fa mettere nel seventh grade! Poi, dopo appena due mesi a scuola, passo all’ottava! Insomma la scuola media l’ho fatta in pochi mesi”.

Ma la figura di tuo padre è quindi fondamentale, importantissima nell’indirizzare il piccolo Rocco agli studi.
“Non solo per quello, io non ho fatto sacrifici, lui invece ne ha fatti tanti, è stato in guerra e poi in Africa 5 anni prigioniero degli Inglesi…”
E tua madre? Che ruolo ha avuto la mamma?
“Mia madre era forte. Ha cresciuto quattro figli e sapeva come badare a noi con sole cento lire al mese”.
Forte… intendi forte di valori?
“Fortissimi valori. E’ morta l’anno scorso all’età di 97 anni”.
I tuoi genitori erano entrambi calabresi?
“Dello stesso paese. Marina di Gioiosa Ionica”.

Quando eri bambino, e ti era venuta la passione del calcio in Calabria, vivendo poi in America avevi trovato degli amici per praticarlo?
“Si avevamo gli altri figli di emigranti del quartiere per giocare. È successo che quando era all’ultimo anno di liceo, NYU aveva un ottimo programma per il soccer, e allora avevano un uptown campus nel Bronx, e lì c’era anche il campo di calcio. Non lo hanno più oggi, ma allora era una squadra molto forte, e andavano molto bene. Il mio insegnante di ginnastica aveva capito che io ero un hustler. Come si dice in italiano?”
Un collega giornalista si avvicina al nostro tavolo e cerca di aiutare: “Stronzo! In Italiano si dice stronzo.”
Commisso non approva: “No, no, stronzo no. Non ho detto asshole. Ho detto hustler!”

Un lottatore? Un agguerrito e ambizioso, qualcuno che non si arrende fino a quando raggiunge lo scopo?
“Ero proprio così. Ero sempre stato così, capisci, non avevo abbastanza soldi per andare al college così iniziai a cercare borse di studio con Columbia, NYU. Il mio insegnante di ginnastica chiamò perché loro già mi conoscevano che ero bravo, perché giocavamo a calcio un’ora a settimana”.
Che ruolo giocavi, a centrocampo?
“Al liceo, con i ragazzi americani, io ero in tutti i ruoli, ma al college mi misero in mezzo alla difesa, numero cinque. Ma poi giocai all’attacco nell’ultimo anno, e segnai tanti goal anche se gli americani erano più alti e robusti… Comunque quando seppi che NYU mi dava l’ammissione e una scholarship, chiamai il mio insegnante di ginnastica e gli dissi: chiama quelli della Columbia, digli che NYU mi ha preso, ma che vorrei andare con loro se ci sono condizioni migliori… La squadra di NYU era più forte, aveva un migliore allenatore, così quando alla Columbia seppero che NYU mi voleva, mi offrirono subito una borsa di studio migliore. Così arrivai alla Columbia con una full scholarship. Oggi il costo di quei quattro anni sarebbe almeno 300 mila dollari”.
Quale è il ricordo più bello che hai di quegli anni all’università, qualcosa che resterà sempre in cima ai tuoi ricordi?
“Non è un ricordo bello ma voglio lo stesso parlarne. Quando nel 1968 abbiamo una grande sommossa alla Columbia University e l’università ebbe danni gravissimi, e per un po’ faticò a riprendersi. Siamo negli anni del Viet Nam… Ovviamente come bei ricordi ho tutti gli anni undergraduate, in cui giocavo tantissimo a calcio, e conobbi tutti gli amici che ho ancora adesso”.
Siamo quindi alla fine degli anni Sessanta, giusto?
“Siamo nel ’67, l’anno che son entrato”.

Ok, 67’, 68’… 1970: l’Italia ai Mondiali del Messico che arriva in finale contro il Brasile. Tu guardi la partita nel Bronx o nel campus della Columbia?
“No, non c’era una tv dove guardarla. Non li ho visti quei mondiali”.
Come? Non hai visto il famoso gol di Rivera del 4-3 nella semifinale con la Germania?
“Ovviamente l’ho visto, ma dopo. Sai, su YouTube. Ma non lo vidi in diretta, non avevamo la televisione e poi la World Cup non era neanche sentita per niente qui, nessuna ne sapeva nulla. Infatti in quegli anni gli USA non si qualificavano mai. L’America si qualificò nei Mondiali prima della guerra e poi nel 1950. Poi dovette aspettare fino al 1986, e ai mondiali del 1990 in Italia per riprendere e far crescere l’interesse”.

Bene, tu però la passione per il calcio l’avevi già, e ben prima di arrivare alla Columbia. Però non pensavi allora di far business con il calcio. Quale è stata la chiave del tuo successo nel business, cioè quando è che hai capito che eri proprio la persona giusta per il business?
“Tutta la mia carriera è stata basata prima di tutto sulla dedizione al lavoro, lavorare duro. Ma dopo sull’essere molto leale alle persone per cui lavoro, fino al momento che loro non sono più leali con me. Hai capito? Loyalty! Lealtà. Questo esiste pure nella mia azienda, io ho gente senza contratto, ai livelli dirigenziali alti nessuno ha un contratto nella mia azienda, eppure sono stati con me per sempre. C’è la fiducia che se tu ti prendi cura di me, io mi prendo cura di te. Che è lo stesso feeling che voglio stabilire nella nostra Fiorentina, e ho già fatto quel discorso: ‘Take care of me and I’ll take care of you’. Lavoro duro e poi intraprendere ciò che gli altri vedono solo come un grande rischio. Sai, quando ho aperto una discoteca nel Bronx, avevo già un bel lavoro, a Wall Street. Pazzesco vero? Che cosa credi di fare con una discoteca quando hai un lavoro in banca, alla Chase Bank, la banca dei Rockefellers: non potevo dire alla banca che avevo una discoteca, sarei stato licenziato in tronco!”
E già.
“Potrei darti altri esempi, sai che ho avuto la discoteca, sai di Columbia, ma io a Columbia sono anche andato per la Business School ed ero l’unico studente che lavorava full time mentre frequentava l’università, l’unico”.

E riuscivi a mantenere i voti alti?
“Ero molto bravo anche perché ero il presidente dell’organizzazione degli studenti della Columbia. Sono stato eletto dai miei colleghi, capito? Quindi un ragazzo che, come ho già detto, ha vissuto nel Bronx, lavorato nel Bronx, con la discoteca, andava all’università a Manhattan, lavoravo a Brooklyn, nella subway, la linea 5, a Flushing Avenue e Marcy e Union Avenue… Così andai dal mio boss, pazzesco vero? E gli dissi che avevo vinto una borsa di studio per l’università, e chiesi di lavorare per il turno di notte. Rischiando, perché presi da volontario il turno anche se il quartiere era molto pericoloso”.
Che storia. Potrebbero farne un film…
“Uscivo alle due di notte dalla linea 5 della subway. Così studiavo tutte le connessioni in modo da arrivare da Union Avenue, cioè Flushing Avenue in Brooklyn, per andare sempre dritto fino al Bronx, attraversando tutta Manhattan. La mia era l’ultima fermata, sulla 241 strada, e alle due di mattina prendevo la mia borsa, arrivavo a casa e non avevo più nulla da temere, per questo ieri ai ragazzi della Fiorentina ho detto che non temo nulla. Non ho più paura di nulla. Avrei dovuto aver paura quando ero giovane. E in tutto questo avevo anche una ragazza, che stava in Canada…”
E con tutte le cose che facevi avevi allora anche il tempo per una ragazza?
“Sì, ma andavo a trovarla una volta al mese”.

Chi è stato il tuo Mentor? Chi ti ha dato i consigli per fare le scelte giuste nella vita?
“I miei genitori, loro me li hanno dati, dandomi le radici, i valori, come una persona dovrebbe essere, come ti dovresti comportare. Il mio paese in Calabria, la mia gente. Sai, noi gente del Sud veniamo spesso criticati da quelli del nord, come ci dicono in italiano… (terroni, ndr) ma alla fine siamo quelli che riescono a far le cose nonostante le avversità. Mio padre era un uomo di grandi principi”.
Il successo nel lavoro hai detto che lo devi ai valori trasmessi dalla famiglia: aiutarsi a vicenda, tenere vicine le persone care, allontanare coloro dei quali non hai fiducia. Giusto?
“Lavoro duro, integrità, trasparenza, onestà, sincerità, con tutti, con tutta la gente. Se poi c’è qualcuno che ti vuol far del male a quel punto tu dovrai fare la tua parte. Capito? Perché queste cose succedono pure, ma fino a quel giorno, io non credo di aver fatto del male a nessuno in vita mia. Sono arrivato al successo senza fare male a nessuno. Ora ho una causa con l’United States Soccer Federation, un grande processo, vogliono farci chiudere la nostra squadra (Cosmos, ndr). Non è giusto, si sono presi tutta la lega divisione 2, dopo che avevo investito molti soldi in sei mesi, e l’avevo portata nella prima divisione. Questo è il momento che ho dovuto fare una denuncia, che è ancora in corso e tutto sta andando bene”.
Alcuni media americani hanno interpretato il tuo acquisto della Fiorentina come una forma di vendetta…
“No, alcuni anni prima avevo tentato di prendere il Milan, poi il Palermo” – e noi della Voce avevamo fatto lo scoop – “e così via, quindi non voglio chiamarla vendetta, è una parola forte”.
Non ho detto che l’hai chiamata tu così, ma che dei giornali l’hanno interpretata così.
“La chiamerei rivincita”.
La rivincita, un termine sportivo.
“Sì, sì”.

Ma non hai mai invece considerato di comprare una squadra della MLS?
“Mi avevano offerto una squadra 20 anni fa quando andai a incontrare il proprietario delle Metro Stars. Avevano loro la società Metro Media, e io con la mia company mi occupavo del settore di fiber ottiche. Ero andato a trovarli per questi affari, non per parlare di soccer. Ma loro mi dissero, ti interessa comprare la squadra dei Metro Stars? E’ quella del New Jersey da dove poi sono venuti i Red Bulls. Allora mi chiesero meno di dieci milioni di dollari…”
Ma a te non ti interessava.
“Non mi interessa perché dovevo condurre affari per la compagnia pubblica (quotata in borsa, ndr) di cui ero proprietario e CEO e non potevo trattare una cosa del genere da solo come comprare una squadra di calcio. Avevo controllo della società ma non del 100% delle azioni. Alla fine decisi di comprare del tutto la società, comprando le azioni di tutti gli investitori e rimasi unico proprietario. Ora rispondo solo alla mia famiglia, ai miei impiegati, ai miei clienti, ma non agli investitori pubblici. Non ho più investitori ora”.
Parliamo del tuo tempo. Ti aspetti che la Fiorentina occuperà tanto del tuo tempo? Tu hai tuo figlio qui che ti sta aiutando e anche la tua famiglia, hai top manager, amici come Joe Barone che ti aiutano, ma pensi che la tua azienda Mediacom ne risentirà del tempo che tu stai dedicando alla Fiorentina?
“Il valore della mia impresa Mediacom in questo momento lo ritengo di 8 miliardi di dollari. Mentre per la Fiorentina, parliamo di circa 150-170 milioni. Quindi l’ho comprata con una piccola percentuale di quello che posseggo, ma sta prendendo il 98% del mio tempo. Ma ho appena iniziato, è tutto nuovo per me, è in Italia, la cultura è diversa, ci credi o no, ho dovuto firmare più carte legali in questa operazione in Italia che avevo firmato in tutta la mia vita. Ma è il sistema italiano”.

Quindi quanto tempo prevedi che starai a Firenze o in Italia nei prossimi mesi: 20% del tuo tempo? 50%? 80%?
“No, no, 80% no. Non voglio dire una cifra, perché le cose possono cambiare, ma la mia intenzione è di venire per vedere le partite”.
Quindi per ogni partita in casa sarai allo stadio a Firenze?
“Calma, non ho detto che ci sarò ogni sera che gioca la Fiorentina. Io ogni sera la passo con mia moglie. Ma prometto che ci sarò il più tempo possibile”.
Questa squadra l’hai comprata ed è una importante di Serie A. Qualcun forse dimentica, ma la Fiorentina negli anni Cinquanta e Sessanta vinceva gli scudetti. Insomma una squadra di grandi tradizioni calcistiche ma che non è stata vincente da tanto tempo. Quando ti aspetti di vincere con la Fiorentina? Quanto tempo dovrà passare? Forse non quest’anno, né l’anno prossimo. Ma quando?
“Abbiamo appena vinto una partita a Chicago…”

Sì capisco. Ma quando abbiamo chiesto ad Antognoni si è dimostrato molto prudente. Ma tu lo sei pure? Io non credo che Commisso abbia comprato la Fiorentina per galleggiare in Serie A. Tu l’hai comprata perchè vuoi vincere lo scudetto. E tu vorrai vincere anche in Europa, questo l’ho capito. Ora vorrei sapere quale è il tuo piano per vincere: 3 anni? 5 anni? Dieci anni…
Commisso qui ha un momento che sembra non voler più rispondere alle nostre domande. Ma poi sorride, e continua.
“Non ho un piano. Lavorerò duro e sarò onesto con voi, mi spaccherò il culo (“I’ll work my ass off”) per la Fiorentina e poi vedremo quel che succederà”.
Commisso si è agitato. Si alza, con la scusa di qualcun che lo chiama e sembra non tornare più. Ma noi restiamo dove siamo ad aspettarlo, certi che un “hustler” non può aver paura delle domande difficili. E infatti torna a sedersi con noi dopo 15 minuti.

Ci eravamo fermati quando dicevi che non hai un piano per la Fiorentina. Eppure io credo che tu il piano lo abbia!
“Quando si parla di un piano, di fare un piano generale, prima devi conoscere bene tutta la squadra. Comunicare ad aggiustare le infrastrutture, guadagnare un po’ di tempo. Pensare al centro sportivo, ma tutto questo prende tempo non si può fare in un giorno. E quindi ci fermeremo a riflettere, e vedremo cosa abbiamo raggiunto e organizzato per la prossima stagione. Ecco non posso promettere altro”.
Un piano quindi di cinque anni prima di vincere?
“No, non ho nemmeno questo, non so neanche se sarò vivo tra cinque anni”.
Tocchiamo ferro…
“Tocchiamo ferro…”
Questo investimento nella Fiorentina e nel calcio italiano è innanzitutto solo passione, oppure c’è anche un interesse economico per fare affari?
“Beh io te l’ho detto, io non devo andare in Italia per fare affari, io ho abbastanza soldi. Non ne ho bisogno, alla mia età la gente va in pensione, compra una casa in Florida… Io ho soltanto una casa, ho comprato case per altri ma non per me. Ora potrei avere tutto quello che voglio e appunto andarmene in Florida.”
Ma che ti ha detto tua moglie quando hai deciso di comprare la Fiorentina?
“Beh, mia moglie mi ha detto, se proprio devi farlo assicurati che compri in un posto che mi piace. Firenze era perfetta! Lei si fa le passeggiate, e poi ora ti racconto dell’anello fiorentino che io le avevo regalato 30 anni fa comprandolo a Ponte Vecchio e che lei aveva perduto. La prima cosa che ho fatto per lei quando siamo tornati a Firenze, le ho detto che le volevo fare un regalo, e lei è andata a ricomprarsi l’anello che aveva perso”.

Di dov’è tua moglie?
“Del paese vicino al mio, in Calabria”.
Vi siete conosciuti qui a New York?
“Lei è di Siderno e io di Marina di Gioiosa Ionica, che sono uno dopo l’altro”.
La Fiorentina sarebbe quindi passione, non è affari.
“No però, guarda, non è affari ma fino ad un certo punto, no? Uno non va a gettare soldi, spendi i soldi per investimenti e fai crescere il valore dell’azienda. L’ho già detto che la Serie A, non solo la Fiorentina, è ancora molto indietro rispetto alla Premiere League inglese, cioè hanno tre volte la nostra ricchezza. Con le nostre entrate non puoi comprare certi giocatori, senza certi giocatori non puoi vincere e se non puoi vincere – ecco il circolo vizioso – non puoi arrivare alla Champions league. Ma per arrivarci non puoi avere perdite, per non aver perdite devi generare entrate… Quindi, le nostre entrate sono circa 100 milioni, la Juventus va oltre 400 credo, hanno abbastanza soldi e ricchezza a disposizione per comprarsi tutto, e questo è quello che sta rovinando il calcio italiano. Quindi bisogna cominciare aggiustando le infrastrutture della Serie A”.
Ma il business della tua azienda Mediacom non potrebbe aiutare per i diritti tv? Si fanno tanti soldi, soprattutto per i diritti internazionali. Non è un business che conosci?
“Non faccio soldi con questo. Devi capire il mio business. Non sono proprietario di ESPN, non faccio affari con i diritti tv, compro i programmi da ESPN, NBC, CBS, loro ce li vendono e noi li portiamo nelle case degli americani. Hai cable tv a casa tua? Qui a New York c’è Spectrum che porta programmi, telefono, servizi commerciali, pubblicità, e noi lavoriamo allo stesso modo ma non lo facciamo qui a New York ma in 22 stati e 1500 comunità dove operiamo”.

Hai capito di cosa parlo, i soldi per lo sport stanno nei diritti tv e sicuramente conosci il business…
“Una delle prime cose che abbiamo deciso è quella di aprire un ufficio qui a New York, deve essere New York, non può essere un altro posto. E’ il centro per questo tipo di media, non è Hollywood, ma è dove il business della pubblicità gira per la televisione. Tutte le telecom operano da qui. Tutto si muove attraversando New York , e così dobbiamo anche noi, come del resto fa la League, la Bundesliga, la Premier league, dobbiamo avere una presenza più grande a New York, e non soltanto per la Fiorentina, parlo per l’intero calcio italiano di Serie A”.
Con chi ti trovi bene tra i manager di Serie A? Hai già incontrato altri presidenti di A?
“Ma sai, quello che era cinese, se ne stava in Cina, Mr. Lee… Poi quello del Palermo non ho capito, ma forse era agli arresti…, Insomma come facevo ad incontrarli questi. No, non ho incontrato nessuno. Quando sono stato a Milano per chiudere l’affare è stato fatto a tempi di record”.
Infatti avevi un super avvocato! (Salvo Arena, di Catania, laureato ad Harvard, ndr)
“Molto bravo. Sono così bravi questi avvocati che per le due parti ne avevamo cinquanta ciascuno, ce ne volevamo così tanti per finire l’affare. Qui in America ne sarebbero bastati due! Ma è il modo di fare in Italia, e non voglio lamentarmi, siamo stati fortunati, avevamo le persone giuste e la banca era JPMorgan”.
Comunque Commisso non è il primo italo americano a comprare squadre di calcio italiane. Sono arrivati prima a Roma, Bologna, Venezia… Secondo te perché sono arrivati questi italiani d’America nei campionati italiani?
“Prima di tutto gli italiani hanno detto che non ce la facevano più, molte squadre stavano fallendo, Palermo, Bari, Reggina, Catania, Parma… Questo succede quando non si investe, si finisce in bancarotta. I rischi si prendono e i risultati si vedono in base a come si conduce bene il proprio business e agli investimenti e questo è mancato a molte squadre italiane. Quindi è vero gli americani sono arrivati perché sapevano che potevano portare un nuovo modo di far business col calcio. Io nel 2010 mi stavo coinvolgendo nell’operazione di Pallotta con la Roma ma poi decisi di lasciar perdere. Comunque gli investitori americani, ma soprattutto russi e sauditi, si sono diretti verso l’Inghilterra…”

Ma pensi che questo arrivo degli imprenditori italoamericani nel calcio italiano sia positivo?
“Dico solo che io sono l’unico tra questi nato in Italia”.
Ma tu ti senti più americano, italiano, o calabrese?
“So che non offenderò nessuno dicendo che mi sento di essere tutti e tre e allo stesso momento”.
Pensi di far un giorno politica? Saresti bravo a far politica?
“L’ultima volta che ho fatto politica è stato quando fui eletto presidente dell’organizzazione degli studenti della Columbia University. Mi promisi che non avrei mai più fatto politica. Era il 1974, 46 anni fa”.
Grazie per questa intervista e ti facciamo tanti auguri per la tua avventura con la Fiorentina. Crediamo anche che tu ti sia rivelato per quello che veramente sei ai tifosi fiorentini e a tutti gli italiani, che magari apprezzeranno questo tuo modo di essere.
“Vediamo, vediamo”.
Alla realizzazione di questa intervista hanno collaborato Ilaria Maroni e Aligi Ciancio.