Siamo in tanti gli italiani emigrati e residenti all’estero. Facciamo parte della cosiddetta “diaspora”. Ogni paese d’immigrazione vanta le sue “piccole Italie,” orgoglio degli italiani trasposti in altra nazione. Ma quanto si possono considerare ancora veri italiani gli italo-americani, per esempio? Questa è una domanda che ci facciamo, non solo i diretti interessati ma anche gli accademici e uomini d’affari che cercano di capire come rivolgersi a tale pubblico. Come si identificano? Quali sono i sentimenti che nutrono verso l’Italia, loro paese d’origine, e verso l’America paese di residenza? A che cosa sono interessati? Scrivendo per questo giornale spesso mi sono posta lo stesso tipo di domande e non molto tempo fa su La Voce di New York è uscito un ottimo articolo in cui venivano presi in considerazione questi quesiti e si esaminava l’impatto che l’insegnamento della lingua italiana ha in Nord America e nel mondo in genere.
Ultimamente, alla televisione italiana è diventato famoso un programma dal titolo “Little Big Italy” presentato da Francesco Panella, celebre ristoratore. Per chi volesse capire meglio di cosa si tratti lo si può rivedere su Youtube.
In una sorta di turismo culinario, il programma si propone di ricercare, nelle varie “piccole Italia” sparse per il mondo – dall’Australia al nord America – “ristoranti tipici” italiani. La trasmissione ha una sua agenda specifica che viene seguita in ogni puntata. Tre concorrenti, italiani residenti nel paese preso in considerazione, vengono presentati dal conduttore. A loro volta introducono i tre ristoranti e proprietari che secondo la loro opinione sono i più italiani. Prima di iniziare la gara vera e propria, Panella li sottopone ad una serie di domande di cultura generale, molto semplici, per testare quanto ricordano ancora dell’Italia. Le domande vertono su argomenti diversi: politica, cultura e spettacolo. Per esempio, può chiedergli il nome dell’attuale presidente della Repubblica o se riconoscono personaggi famosi e località geografiche italiane. Ma, ahimé, nonostante la semplicità delle domande spesso Francesco si sente rispondere un secco e sonoro: “non lo so” che spinge il conduttore di “Little Big Italy” a stuzzicare e prendere in giro i concorrenti su come abbiano potuto dimenticare la loro “italianità” da quando hanno lasciato l’Italia.
Dopo il divertente preambolo di cultura, Panella procede nello scrutinio dei menù proposti, commentando sull’autenticità dei piatti; ma spesso le versioni presentate e americanizzate – pollo alla francese, al marsala o alla parmigiana, per esempio – non incontrano il favore del conduttore e non passano la prova. Per non parlare dei famosi, in America, spaghetti con le polpette. Altre cose che non passano sicuramente inosservate all’occhio attento di Panella sono gli errori di ortografia rilevati nei menù: linguini al posto di linguine è difficile da non notare. Alla fine della degustazione è sempre lui che si riserva il voto definitivo e che si basa su una serie di fattori che prendono in considerazione gli arredi e le decorazioni, e infine il sapore dei piatti presentati per determinare il livello di “italianità”. C’è da dire che il criterio di giudizio è molto severo e, per dirla con un famoso proverbio, devono passare attraverso la cruna dell’ago per poter vincere. Troppe decorazioni ostentate all’italiana rendono il ristorante “pacchiano e chiassoso” e lo accomunano più ad un parco per divertimenti che ad un luogo tipicamente italiano di ristoro, ma con la mancanza di sufficienti riferimenti all’Italia si rischia di ottenere un posto non abbastanza “italiano”.
Dire che il cibo sia un elemento di riconoscimento di ciascuna cultura è un cliché. E allora cosa succede agli emigranti quando lasciano il paese d’origine? Gli italiani smettono di essere italiani perché la loro cucina e lo stile di vita si è adattato alla nuova cultura della nazione che li ospita? Ѐ un argomento molto delicato per gli emigrati e per i loro figli perché anche se cercano di dimostrare a modo loro l’amore che sentono per la cultura da cui provengono, e la nostalgia che provano per l’Italia, gli italiani rimasti a casa non sono sempre propensi a riconoscerli come figli degni di rappresentarli all’estero. Ci sono pagine e pagine scritte, e carriere costruite da studiosi e non studiosi, sul rapporto difficile che c’è tra le due parti. Flaminio Di Biagi, noto accademico, ha citato il pensiero di un critico che arditamente dice: “Gli italoamericani non sono italiani […] ci imbarazzano, soprattutto quelli che provengono dal Sud…” (Italoamericani tra Hollywood e cinecittà:142).
Un altro commento più diretto, a riguardo, è stato fatto da Felicita Ratti, insegnante di lingue, traduttrice e interprete che vive attualmente in Austria e in cui dice: “mi dispiace se voi americani che avete almeno un parente, un antenato o dei nonni oriundi italiani vi siate sentiti maltrattati da noi autoctoni, però sta di fatto che gli italo-americani rappresentano una cultura diversa con una lingua diversa (creola/ibrida) a sé stante. Sicuramente avete una vostra dignità ed una cultura interessante e tutto…..ma non siete italiani”. Ironia della sorte però è che anche Felicita Ratti, vivendo in Austria, fa parte della diaspora italiana e quindi del folto stuolo degli emigrati che vivono all’estero.
La situazione degli italiani che risiedono fuori dall’Italia è un argomento che è stato valutato e studiato solo dagli anni ‘90, secondo lo studioso Di Biagi, cioè da quando anche l’Italia è stata interessata da forti ondate di immigrazione che hanno iniziato a rendere la madre patria una terra anch’essa multiculturale. Fino ad allora il governo e gli studiosi avevano ignorato di proposito la diaspora degli italiani.
Tra i tanti che si sono interessati alla diaspora c’è anche la famosa cuoca e proprietaria di ristoranti Lidia Bastianich. In una lunga intervista che le feci nel 2007 il cui argomento aveva come titolo: “Una conversazione con Lidia Bastianich sul terroir, la cucina, la globalizzazione e la cultura”, Lidia commentò sull’evoluzione della cucina italoamericana e il posto che occupava nella diaspora italiana, affermando che,“il cibo italo-americano è un esempio della trasposizione di una cultura, e quello che è accaduto alla cucina e al cibo italo-americano succede anche a molti immigranti di oggi…L’evoluzione della cucina italoamericana, quindi, anche se è fondamentalmente italiana, fa parte della storia ‘della cultura Americana’ e non della storia della cultura italiana” (Columbia Journal of American Studies, Spring 2007:174-191).
La ricerca di Francesco Panella della purezza e i canoni rigidi che applica nella ricerca dell’ “italianità” nella cucina all’estero è significativo di tale mentalità secondo la quale non si può sfuggire a questa sorte, e anche se ci si è trasferiti da poco, com’è il caso di molti concorrenti che partecipano al programma “Little Big Italy”, è impossibile ritenere la propria quota di “italianità”. L’unica speranza quindi è quella di riuscire a mantenersi il più possibile vicini alle origini. Il trattino ortografico che viene usato tra le due parole per definire gli appartenenti alla diaspora, per esempio in “Italian-American,” rappresenta un divario culturale, psicologico e emotivo che secondo gli italiani rimasti in patria non si può colmare.
Ciononostante, il menù che Panella propone ai clienti sul sito del ristorante, Antica Pesa, che gestisce a Brooklyn, è scritto in inglese. Forse le sue indagini ed interviste lo hanno fatto riflettere sul fatto che una volta lasciato il proprio paese, per poter guadagnare e far parte di un’altra comunità, bisogna in qualche modo assimilare o incorporare la nuova realtà in cui si vive? Una forma di compromesso esiste sempre nell’incontro fra due culture, anche quando il trasferimento in un’altra nazione lo si fa per scelta personale. Bisogna essere scettici quindi verso coloro che con arroganza pensano che non si possa mantenere una cultura autentica oltre i confini di appartenenza, e infatti viene da chiedersi se tale autenticità è possibile mantenerla anche nell’ Italia globalizzata e multiculturale d’oggi.