Giovedì 6 ottobre, la fondazione Migrantes ha presentato il rapporto annuale sull’emigrazione italiana. 500 pagine fitte di cifre, cartine, tabelle, grafici, analisi, che confermano la qualità e lo spessore scientifico della pubblicazione, insieme al suo indiscusso valore morale visto che si tratta di un prodotto promosso dalla Cei, Conferenza episcopale italiana.
Il rapporto di quest’anno si è concentrato su quattro tematiche: i flussi e le presenze, la prospettiva storica, la contemporaneità attraverso riflessioni ed esperienze, la città e le sue declinazioni.
Il risultato è la scomposizione analitica e la ricomposizione concettuale di una nuova mobilità italiana che, non potendo per mille ragioni tagliare le radici con il paese d’origine, opta per l’appartenenza multipla, preferibilmente “europea”, ma se necessitata, anche “altra” sino alla lontananza estrema dalle origini.
E’ un’emigrazione di tipo diverso che, al di là degli ineliminabili aspetti di fondo (l’allontanamento fisico e la distanza, la memoria del tempo passato, la nostalgia dell’identità sociale perduta, la ricerca di soluzione ai bisogni materiali e psicologici, etc.) non ha più molto da spartire con la natura dell’emigrazione storica espressa dallo stivale tra l’ottocento della ritrovata unità sino al novecento del benessere.
Per l’appartenenza multipla congiurano positivamente fatti come le regole dell’Unione Europea sulla libera circolazione, le aperture della globalizzazione garantite dal sistema Nazioni Unite/Wto, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la facilitazione tecnica agli spostamenti, il più alto livello di apprendimento con il multitasking che ne deriva, le coperture sociali e gli accordi intergovernativi di tutela, la struttura leggera della famiglia e il nuovo modo d’essere della donna. Sono agenti e fattori del tutto nuovi rispetto al contesto ottocentesco e novecentesco nel quale si esprimevano le precedenti emigrazioni.
In quegli anni, emigrare dall’Italia poteva anche significare finire in fondo al mare, proprio come capita oggi ai poveracci che da Africa e Medio Oriente provano ad attraversare il Mediterraneo. Si ricorderà cosa accadde centodieci anni fa, il 4 agosto 1906, agli emigranti italiani e spagnoli del piroscafo italiano Sirio. Nel pieno sole del pomeriggio estivo, in condizioni meteo ottimali, la nave andò a schiantarsi a tutta velocità sugli scogli di un isolotto delle Hormigas, davanti a capo Palos di Cartagena, Spagna. Stimate inizialmente in 293, le vittime, nel bilancio definitivo, sarebbero risultate più di 500. Costruito a regola d’arte a Glasgow e consegnato a “Navigazione Generale Italiana” nel 1883 per il servizio sulle rotte migratorie dell’America latina, lo scafo aveva da poco lasciato il porto di Barcellona e faceva rotta verso l’Argentina.
Le folksinger Caterina Bueno e Giovanni Marini, ma anche il sempreverde Francesco De Gregori avrebbero cantato quel luttuoso episodio con questi versi: «E da Genova in Sirio partivano/per l’America varcare, varcare i confin/e da bordo cantar si sentivano/tutti allegri del suo destin./Urtò il Sirio un terribile scoglio,/di tanta gente la misera fin:/padri e madri abbracciava i suoi figli/che sparivano tra le onde, tra le onde del mar…».
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La narrativa dell’emigrazione contemporanea ha altri protagonisti, altre rotte, altre qualificazioni. Non emigrano i disperati con la valigia di cartone legata dallo spago. Vanno ancora via poveri e disoccupati, ma si infoltisce il numero di professionisti e commercianti costretti a chiudere per l’insolenza del fisco, imprenditori che cercano fortuna altrove, famiglie ad alto reddito insoddisfatte della qualità della vita per sé e figli, giovani laureati e ricercatori estranei a clientelismi ed endogamie di potere, pensionati che cercano di raggranellare un po’ di dignità in paesi più rispettosi del loro poco reddito.
Da anni scriviamo che un’Italia impoverita nella tasca e infiacchita nel morale dalla bulimia della “casta”, avrebbe spinto ad andarsene molti tra i “migliori”, tenendosi i “peggiori” che in quel sistema prosperano alla grande, come i topi nel formaggio. Sta accadendo.
Le motivazioni di fondo dell’emigrazione del presente non sono diverse da quelle che spingevano a migrare in passato: ricerca del lavoro e del riconoscimento dei propri meriti, sfiducia verso la società nella quale si è cresciuti e il governo che la amministra, fiducia nel talento e nella capacità di sfondare in un luogo diverso da quello di nascita. Si aggiungono però, in un’Italia più ricca e che ha alle spalle sessant’anni di benessere e di stato sociale da qualche tempo in picchiata, protagonisti nuovi, sotto il profilo sociale, culturale, e anche demografico, visto che le fasce di età interessate al fenomeno migratorio sono diverse, e le donne emigrano al pari degli uomini e in via autonoma, non più per il classico ricongiungimento famigliare. E’ così vero che in 35 paesi le donne italiane emigrate superano il numero degli uomini, e in totale assommano a 2.312.309, il 48,1% e 84.345 in più del 1 gennaio 2015. Inoltre, tra gli ultrasessantacinquenni le donne surclassano i maschi in quanto a uscite (62,6% contro 37,4%).
Ad Aire all’inizio di quest’anno, risultano residenti italiani all’estero in numero di 4.811.163. I nostri emigrati, credo si possa convenire, conoscendo la sana refrattarietà italica a presentarsi presso le autorità tricolori, sono sicuramente in numero superiore ai registrati in Aire. Ragioniamo però su quei numeri ufficiali. Risultano, rispetto al 1 gennaio dell’anno precedente, 189.699 iscritti in più, il 56,7% per solo espatrio. Significa che lo scorso anno 107.529 (56,1% maschi) italiani hanno lasciato l’Italia, il 69,2% trasferiti nella casa Europa, gli altri nella diaspora globale. Non sorprende, la preferenza per l’Europa, atteso che, guardando al totale statistico della popolazione di italiani residenti esteri, oltre la metà (2 milioni e mezzo) risiedono in Europa, mentre quasi 2 milioni risiedono nel continente americano, specie nella sua parte centro-meridionale (32,5% di 1,9 milioni, ma recentemente l’America meridionale non richiama più come prima).
I paesi che nel 2015 hanno mostrato maggiore attrattiva sono stati nell’ordine: Argentina (28.982), Brasile (20.427), Regno Unito (18.706), Germania (18.674), Svizzera (14.496), Francia (11.358), Stati Uniti (6.683), Spagna (6.520).
Il 50,8% degli iscritti ha origini meridionali, il 33,8% settentrionali, il 15,4% centrali. A crescere di più nell’ultimo anno considerato, sono Lombardia (+6,5%), Valle d’Aosta (+6,3%), Emilia Romagna (+6%), Veneto (+5,7%).
Le cose cambiano se la classifica della popolazione Aire registrata viene proposta su base provinciale: in ordine si collocano le province di Roma, Cosenza, Agrigento, Salerno, Napoli, Milano, Catania, Palermo, Treviso, Torino.
Si tratta di una mobilità “a senso unico”, rileva Migrantes. All’emorragia di talento e sapere italiani, che si rilevano nella scomposizione dei dati collettivi, non corrispondono arrivi altrettanto qualificati. Si aggiunga che in una recente inchiesta, intorno al 45% dei figli di immigrati in Italia dichiarava di essere molto propenso ad andarsene.
Il fatto di esprimere quasi esclusivamente uscite, nella fascia qualità, pone l’Italia in cima all’elenco dei paesi in via di sottosviluppo. Il “brain drain” è fenomeno dei paesi in sviluppo, non dei paesi industrializzati. Al contrario il “brain exchange” identifica la capacità di un paese avanzato di cedere intelligenze sovrabbondanti, per acquisire i talenti dei quali fa difetto.
Meglio ancora la “brain circulation” dove non vi è perdita per nessuno, in quanto i saperi ruotano in un circuito virtuoso di scambio solidale, finalizzato a progettualità comuni. E’ quanto dovrebbe realizzare in Europa l’Unione, se non vedesse sotto schiaffo le politiche di libera circolazione delle persone prevista dai trattati di Maastricht e Lisbona.
Tornando al domestico, non ci racconteremo la barzelletta che abbiamo troppa intelligenza in ogni settore e quindi esportiamo soltanto, senza aver bisogno di importare. Il fatto che da noi le intelligenze esterne non vengano, ha tra le altre conseguenze, di deprimere ulteriormente il tono dei nostri sapere accademici e di ricerca, scardinando il principio di concorrenza tra migliori e facendo cadere la già debolissima speranza dell’ambito futuro meritocratico.
I 18-34 anni sono il 36,7% del totale espatriato lo scorso anno; i 35-49 il 25,8%. Insieme fanno il 62,5% del totale, a conferma che vanno via le energie delle quali il paese abbisogna. Se ne vanno molti minori (20,7%) in un paese a infima natalità.
Se si interrogano i cosiddetti Millennials, scrive il rapporto Migrantes, il 43% afferma di essere molto d’accordo nel considerare l’emigrazione l’unica opportunità per realizzarsi. Un altro 45,3% dice di essere abbastanza d’accordo, e solo l’11,7% afferma di essere poco-per nulla d’accordo. In sostanza l’88.3% dei nostri Millennials ha, almeno psicologicamente, la valigia in mano per abbandonare il suo paese. Si tratta di “costrizione” dettata dalle circostanze, non di scelta, sia chiaro. Il Rapporto giovani dell’istituto Toniolo afferma che abbiamo creato la prima generazione di italiani che non si pone la scelta se sia il caso di partire, ma se sia il caso di restare.
La progressione del fenomeno migratorio, messo sull’arco dei dieci scorsi anni, è impressionante.
E’ accaduto tutto negli ultimi dieci anni. La crisi importata dagli Stati Uniti, ha trovato terreno fertile per far crescere il distacco da un paese incapace di dare un futuro a troppi. Dal maggio 2006 al 1 gennaio 2016 la mobilità italiana in uscita è salita di quasi il 55%, passando da poco più di 3 milioni di iscritti ad Aire a oltre 4,8 milioni. Risulta contundente l’incremento percentuale, ogni anno superiore, che il fenomeno denuncia: dal +15% del 2007 al +20 del 2008, al + 26 del 2009 e via via, superando quota +30 nel 2011, quota +40 nel 2014, sino al +54,9% del 2015. L’incremento, nota Migrantes, ha riguardato tutti i paesi di accoglienza, con Spagna (+155.2%) e Brasile (+151,2%) in testa.
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Scrivendo del naufragio del Sirio, la stampa fece risaltare che gli emigrati dovevano pagare allo stato una tassa di ben 8 lire (cifra esorbitante), ricevendo la garanzia di protezione e assistenza, che il naufragio aveva mostrato inconsistente. Infatti, l’inspiegabile rotta su Las Hormigas, in un tratto di mare che comandante e ufficiali di bordo conoscevano benissimo per averlo percorso innumerevoli volte, venne accostata alla necessità di recuperare il tempo perso nel raccogliere illegalmente centinaia di emigrati lungo la costa, secondo la testimonianza di volantini reperiti sulla secca.
Come dice il proverbio il lupo cambia solo il pelo: il cittadino emigrante della contemporaneità paghi le sue 8 lire di tassa, e sparisca dove vuole, nessuna politica proattiva lo tratterrà. Poco importa alla “casta” che il paese si svuoti di energie e di futuro.
Almeno il piroscafo a vapore che corre verso lo scoglio, l’emigrante della contemporaneità se lo eviterà.