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La Sindrome da Italo-Deficienza Acquisita

Marcello CristobyMarcello Cristo
I protagonisti della serie televisiva Jersey Shore, esempio di come gli italiani d'America si adeguano alla propria caricatura

I protagonisti della serie televisiva Jersey Shore, esempio di come gli italiani d'America si adeguano alla propria caricatura

Time: 4 mins read

 

C'è una malattia bizzarra e selettiva che, per una strana ragione, colpisce molti italiani che vivono negli Stati Uniti. Si sa poco di questo malessere ma sembra essere decisamente contagioso a giudicare dal numero crescente di nostri connazionali che, dopo un periodo  di permanenza negli Usa, ne manifestano i sintomi caratteristici.

Inizia, di solito con un cambiamento della personalità e del comportamento: il volume della voce si innalza; si verifica un drastico aumento del gesticolare che accompagna il discorso e, in generale, si nota nelle persone affette, un manierismo più espansivo e colorato, una cordialità esagerata e chiassosa che spesso è solo esteriore e priva di ogni reale spessore. Di che cosa si tratta dunque? Di un nuovo malanno, anzi di un malanno vecchio ma diagnosticato solo di recente e che sarà catalogato, nella patologia prossima ventura come Sindrome da Italo-Deficienza Acquisita.

Non si la conosce con precisione quale sia la causa del fenomeno ma esso è ben noto anche agli americani dal momento che, qualche anno fa, il programma televisivo “Saturday Night Live” gli ha dedicato uno sketch umoristico assolutamente esilarante.

Nella scenetta si vede una coppia di americani che entra in un ristorante italiano. Al loro ingresso, il proprietario si avventa su di loro assalendoli con baci, abbracci e urla di un’affettuosità esagerata al limite del parossismo. Le attenzioni del gestore prima, e del cameriere poi, sono concentrate in particolare sulla donna che viene prima abbracciata dai due, poi baciata con intenzioni sempre più manifeste e poi apertamente, palpata al seno e al fondoschiena, il tutto con un fare amichevole da “siamo tutti in famiglia, vogliamoci bene”.

A parte le esagerazioni comiche, è chiaro che gli attori di Saturday Night Live hanno fondato l’efficacia del loro sketch su uno stereotipo: quello dell’italiano simpaticone e chiassoso, espansivo (soprattutto con le donne), un po’ sfrontato e sempre pronto al contatto fisico, verso il quale invece i popoli anglossassoni hanno un atteggiamento culturale molto più cauto. Fin qui nulla di strano.

Quello che invece continua a sorprendermi è lo sforzo che molti italiani ed italoamericani fanno per adeguarsi a questo stereotipo. Non parlo solo degli italoamericani di Little Italy che servono la pizza ai turisti di Mulberry Street con indosso la tipica T-shirt “Kiss me, I am italian” (nel loro caso l’adeguamento al ruolo mi pare comprensibile). Mi riferisco invece a persone nate e cresciute in Italia che, presto o tardi, finiscono con il cedere alla tentazione di interpretare il ruolo che l’americano si aspetta da loro.

In questo senso, la cosa può essere vista come un sintomo di adeguamento alle attese della società di cui si è parte. In altre parole, è una forma di conformismo.

Io stesso mi sono ritrovato in alcune situazioni imbarazzanti in molti ristoranti o a feste organizzate da italiani e ci sono locali a New York e a San Francisco che sono veri e propri “focolai” della “Sindrome da Italo-Deficienza Acquisita”, dove questi atteggiamenti non solo sono comuni ma pare quasi che i proprietari li pretendano per contratto dai loro impiegati.

In questi luoghi, sembra che tutti siano stati scritturati per interpretare la parte di sè stessi in un film di Ettore Scola.

Ma alla fine cosa importa? Noi italiani saremo anche un po’ conformisti ma in fin dei conti, che c’è di male se, a parte la curiosità antropologica del fenomeno, lo scopo di tutto ció è solo quello di divertirsi?

E poi diciamola tutta, chi non è conformista? Non esiste gruppo etnico o fascia sociale che non abbia i propri codici e i propri punti di riferimento culturali nei quali riconoscersi, e farsi riconoscere.

Tuttavia questa storia mi ricorda un’altra notizia apparsa sui media americani qualche anno fa in cui si raccontava che un’associazione italo-americana aveva inoltrato una protesta al canale televisivo HBO per lo stereotipo del mafioso con il quale gli italo-americani venivano ritratti nel programma “The Sopranos”.

E' senz'altro vero che in America esiste una percezione pittoresca e romanzata del mafioso e della mafia rispetto a quanto si verifica in Italia. Mentre il mafioso della piovra italiana è un sordido assassino e la mafia è una struttura parassita che impedisce lo sviluppo sociale, in America c'é una tendenza a guardare con una certa ammirazione alla “toughness” del gangster. Un atteggiamento che porta in sé un implicito e parziale condono di quella violenza con la quale il mafioso si fa strada.

Nel 1992, quando qui negli Usa giunse la notizia che in Sicilia, la macchina del giudice Falcone era stata fatta saltare in aria assieme ad un intero pezzo di autostrada, ricordo di essere rimasto esterefatto ed offeso di fronte alla reazione di alcuni conoscenti americani che commentavano il fatto con un certo tono tra il divertito e l’ammirato per l’espediente con la quale Cosa Nostra era riuscita a colpire.

Purtroppo questo senso di ammirazione e questa immagine romanzata e pittoresca della mafia, che hanno costituito uno dei motivi del successo di show televisivi come “The Sopranos”, hanno trovato terreno fertile qui negli Usa anche tra molti italo-americani e, al contrario del primo, questo è uno di quegli stereotipi che, personalmente, non mi sento assolutamente di condonare.

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Marcello Cristo

Marcello Cristo

Sono nato e cresciuto a Napoli dove, nella tradizione magno-greca della mia città, mi sono laureato in Filosofia. Vivo negli Stati Uniti con la mia famiglia da oltre vent'anni facendo la spola tra New York e la California. Dall’America, ho iniziato a collaborare con pubblicazioni italiane come Il Giornale di Indro Montanelli e La Gazzetta dello Sport di Candido Cannavò e poi con il quotidiano in lingua italiana degli Stati Uniti America Oggi per il quale ho lavorato come editor, opinionista e corrispondente dalla California. Nei ritagli di tempo, sto tentando disperatamente di insegnare ai miei figli il napoletano.

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