“Aspetta aspetta… ho una telefonata in arrivo dal carcere. Ti richiamo tra poco”, mi aveva detto ieri pomeriggio e non l’ho più risentita sino a questa mattina. Silvia Polleri va sempre di fretta e riuscire ad acchiapparla non è cosa facile. La sua è una vita fatta di sfide faticose e vinte, con la linea del traguardo che ogni volta si sposta un po’ più in là e lei parte per una nuova avventura.
Ce n’è già una in cantiere, ancora in fase di elaborazione, mi confessa. “Mi hanno proposto l’apertura di un altro ristorante nella ex area EXPO dove arriveranno migliaia di persone a lavorare negli uffici che si stanno costruendo. Ci sto pensando, devo capire chi mette i finanziamenti e se si può reggere da solo, perché io non posso permettermi di fallire. Ho gli stipendi dei miei dipendenti da pagare ogni mese”. E i dipendenti di Silvia sono tutti detenuti, perche lei 15 anni fa ha scelto di lavorare con loro. Prima ha aperto un catering nel carcere di Bollate accogliendo l’invito della direttrice di allora Lucia Castellano. Poi, 4 anni fa, ha avviato il ristorante InGalera, l’unico all’interno di un penitenziario italiano.“Quando sono partita con il catering ho posto un’unica condizione: che fosse un’attività in grado di mantenersi, che stesse sul mercato, che lavorasse per clienti esterni e riuscisse a portare il bon ton tra le mura del carcere. Ho stretto un accordo con una scuola alberghiera che mi ha aiutata nella formazione dei primi detenuti e da allora non ci siamo piu fermati. Abbiamo fatto 800 catering, una cinquantina all’anno. I miei ragazzi escono con me sul nostro furgone, indossano divise eleganti e andiamo a convention aziendali, sfilate di moda, congressi. Tutti hanno l’autorizzazione del magistrato e godono dell’art.21 che consente a chi ha scontato una parte consistente della pena di poter lavorare fuori dal carcere. La sera fanno ritorno nelle loro celle. Sono tutti regolarmente assunti dalla cooperativa ABC La Sapienza in tavola”.
Silvia Polleri fa l’imprenditrice con il cuore. Crede nella possibilità di dare una seconda chance nella vita, non fa parte di quelli che vorrebbero buttare la chiave, quando una persona sbaglia. Del resto il carcere dovrebbe essere proprio un luogo di riabilitazione e rieducazione. “Sono orgogliosa di essere riuscita in questi anni a dare una speranza a 60 carcerati. A Capodanno si ricordano di me, mi scrivono, mi fanno gli auguri. Certo, ci sono anche quelli che ci ricascano e tornano in carcere, ma le recidive a Bollate, struttura modello in Italia, sono solo il 17% contro il 70% del resto del Paese”.
Non si parla mai dell’età di una signora, ma in questo caso è ben ricordare che Silvia e più vicina agli 80 che ai 70 e che questa tra le sbarre e la sua seconda vita, iniziata quando e andata in pensione. Alle spalle ha una storia di puericultrice ed educatrice di scuola materna, oltre a due anni di servizio civile a Gulu in Uganda dove era andata con il marito medico partito con il Cuamm, Medici per l’Africa. Nella pagina di Facebook del ristorante In Galera c’è un suo post orgoglioso con una foto che la ritrae a Roma con l’ambasciatore del Costa Rica. “È stato un incontro importante” scrive, annunciando che in una prigione del Paese centroamericano si vorrebbe aprire un ristorante che si ispira all’esperienza di InGalera. Un altro è già funzionante in un carcere femminile a Cartagena in Colombia. “Sto ancora pagando le cucine”, mi dice Silvia con amarezza. “Il Ministero della Giustizia mi aveva promesso dei finanziamenti e poi all’ultimo momento ha cambiato idea. Non importa, io vado avanti lo stesso e sono orgogliosa di quello che sto facendo. Una volta al mese proponiamo “Una cena con Delitto” e invitiamo degli autori di libri gialli. Voglio presentare sempre più libri perché la cultura deve entrare in carcere”.
Silvia, che su Facebook si fa chiamare Nonna Galeotta, è un fiume in piena quando ti parla dei tanti progetti che ha in mente. Si interrompe un attimo quando riceve la notizia che Kathab, un suo ex dipendente marocchino, con un passato travagliato, è appena diventato papà di tre gemelli e ha già un altro figlio. “Ai poveri succede proprio di tutto”, sussurra, “devo trovare il modo di aiutarlo, è un grande lavoratore, ma questi non sono tempi facili se sei straniero in Italia e in più con un passato da detenuto.” Silvia, l’imprenditrice con il cuore, in mano ha già pronto un messaggio di richiesta di aiuto da mandare via social a tutti i suoi conoscenti. Qualcuno spera si farà venire un’idea. E a chi le chiede se come donna abbia trovato difficoltà a realizzare quello che ha fatto, risponde: “Ci sono riuscita proprio perché sono donna. Siamo delle maratonete, teniamo sulla lunga distanza”.