Joseph Ficalora è presidente, amministratore delegato e direttore della società New York Community Bancorp, e della relativa banca New York Community Bank. La società fu incorporata come Queens County Bancorp nel 1993, holding della Queens County Savings Bank che, nata il 14 aprile 1859, fu la prima cassa di risparmio a noleggio della stato di New York nel borough del Queens. Ed è proprio lì che il giovane Ficalora, Joe, ha mosso i suoi primi passi nel mondo degli affari.

Lo incontriamo nella sede di Manhattan, poco lontano da Penn Station, della sua banca, con base a Long Island. La sua famiglia, ci racconta, è originaria della Sicilia, che sarà anche la destinazione del suo prossimo viaggio – il primo nella terra d’origine –, in compagnia del fratello minore, organizzato in risposta all’invito del sindaco di Castellammare del Golfo. Proprio di questa località, infatti, è originario il padre, mentre la madre è della zona di Catania. “La famiglia di mia madre produceva pistacchi. Ricordo che da piccolo osservavo le foto del mio bisnonno, e, con mio fratello, pensavamo fosse un uomo malvagio, perché ci sembrava brutto, con la pelle bruciata dal sole, una faccia piccola, una moglie minuta che indossava una gonna di seta, e stava seduto là come un re”, ci spiega, mostrando subito una propensione a gesticolare rivelatrice del suo sangue italiano.
Il nostro interlocutore, da poco insignito dalla Associazione Culturale Italiana Di New York di Tony di Piazza del titolo di “Uomo dell’anno”, non è ancora stato in prima persona in quelle zone, ma ci descrive il Castellammare di allora come un villaggio di pescatori, i cui abitanti erano il risultato del crogiolo etnico e culturale passato di lì nei secoli, al punto che il lato paterno della sua famiglia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, aveva pelle chiarissima, lentiggini e occhi chiari.

I suoi familiari sono approdati negli Stati Uniti intorno agli anni Venti del Novecento. I nonni paterni abitavano nel Lower East Side, e si sono sposati negli States. I nonni materni, invece, si erano uniti in matrimonio prima di arrivare nel Nuovo Mondo, e avevano fatto di Washington Heights, a lungo quartiere di italiani, la loro casa. “Sono cresciuto a Corona, nel Queens, e praticamente tutti i miei amici erano italiani. Solo un amico era greco, e la prima persona di colore che ho visto era la mia insegnante di prima media, che era l’unica nera della scuola”.

Profondamente italiano, dunque, l’ambiente in cui il piccolo Joseph, insieme ai suoi due fratelli John e Jim, è cresciuto: “Conoscevo solo una famiglia ebrea e una greca nel mio quartiere: gli altri erano tutti italiani di prima generazione”, ricorda. Eppure, prosegue, “i miei genitori si vollero assicurare che non imparassi l’italiano. ‘Devi parlare in inglese’, mi diceva mia madre”. Insegnamenti, questi, dettati soprattutto dal timore che quelle origini così evidenti avrebbero potuto essere fonte, come in effetti avveniva, di pregiudizio o avrebbero potuto costituire un ostacolo alla sua realizzazione. “Sia mio padre che mia madre hanno iniziato la scuola parlando solo italiano, e poi si sono diplomati al liceo: per una una ragazza italiana e italofona, poi, non era una cosa comune”. Ficalora parla con ammirazione e orgoglio dei suoi genitori: “Lavoravano entrambi in una fabbrica di sartoria, ma avevamo pochi soldi. Non dico che non ci fosse da mangiare, ma di certo non mangiavamo bene. Una delle cose che mia madre ripeteva sempre era di finire quello che c’era nel piatto, perché in Cina i bambini poveri morivano di fame”.
Il primo lavoro di Joseph, che all’epoca aveva 15 anni, fu in una drogheria locale, poco lontano dalla scuola primaria del quartiere. Un anno e mezzo dopo, quella che sarebbe diventata sua cognata, ma all’epoca era la fidanzata di suo fratello, lo presentò alla banca dove lavorava, guadagnandosi così, ricorda lui, 25 dollari di bonus. Tuttavia, quando lei si sposò con il fratello di Joseph, quest’ultimo, per questioni di conflitto di interessi, dovette aspettare che la cognata lasciasse quel posto per poter iniziare a lavorarci. “Quando sono arrivato in quella banca ho capito che sarei stato in grado di svolgere quello che mi era richiesto. Ero la persona più facile da formare, perché ero simpatico e abile nell’occuparmi di compiti diversi”. In quel periodo, la grande maggioranza dei clienti era italiana. In Ficalora è ancora vivido il ricordo delle lunghe file di persone in attesa di un cassiere: e la sua, ci confessa, per una questione di fiducia ed affidabilità, era sempre la più lunga.

Il suo impiego in banca venne però interrotto dall’esperienza della guerra in Vietnam. “Frequentavo il college e volevo arruolarmi, e ho deciso di farlo come specialista in psichiatria”. Così, dopo un training di tre anni nel Sud-Ovest del Paese, Joseph è partito: era il 1968, e l’offensiva del Tet aveva imposto un imponente schieramento di nuovi mezzi e uomini. Il periodo successivo nella divisione psichiatrica di Forth Monmouth (New Jersey), in aiuto dei soldati americani e dei loro parenti traumatizzati dalla guerra, è impresso nella sua memoria: “Non c’è un altro periodo della storia americana in cui persone che hanno dedicato la loro vita a servizio del Paese sono state trattate tanto male. Ci descrivevano come assassini di bambini, e la realtà è che questo ebbe un enorme impatto psicologico”, racconta.
Dopo la guerra, la banca era lì ad aspettarlo. “Il giorno in cui sono tornato, il Direttore del personale era diventato Presidente. Mi invitò nel suo ufficio, mi riferì delle parole lusinghiere che il Manager della filiale di Corona aveva detto di me, e mi offrì di partecipare a un programma di training gestionale”. “Mi era stata data l’opportunità di essere formato per diventare funzionario, e da lì divenni molto presto Vice Direttore di quel programma. Quindi, ebbi la fortuna di essere promosso, di vedermi affidate molte responsabilità e ho finito per diventare Presidente”.
Dei tanti ragazzi italiani con cui è cresciuto, a Corona, solo una piccola minoranza può dire di “avercela fatta”: “Quando sono tornato dal servizio militare, a 22 anni, mi sono sposato con Alice e ho lasciato Corona, solo 4 su 13 non erano morti o in prigione”, ricorda. “I miei genitori hanno avuto tre figli, e tutti si sono guadagnati il college. La differenza tra me e i ragazzi della porta accanto stava nei valori della mia famiglia”. “Inizialmente mio padre non credeva che la banca sarebbe stata il mio futuro. Mi diceva: ‘Joe, lavora con tuo zio Henry, non penso che la banca sia per te. Tuo zio lavora per il NYC Sanitation Department, hanno un sindacato’. Non ho seguito il suo consiglio in quello. Purtroppo è morto troppo giovane per vedere il mio successo e quello dei miei fratelli”, afferma.

Joseph non ritiene che l’essere italo-americano in sé lo abbia in qualche modo aiutato nella sua brillante carriera. La differenza, a suo avviso, l’hanno fatta i valori della sua famiglia: “I valori contano più della nazionalità, specialmente se si ha una famiglia che si è costruita su quei valori, valori italiani”, spiega. Quanto al settore bancario, a suo avviso “gli italiani sono bravi a fornire servizi. Non so se il settore bancario sia più adatto ad essere un business per italiani”, spiega. Quello che sa è che “gli italo-americani sono a loro agio nell’aiutare altre persone, nelle questioni finanziarie e non solo. Gli italo-americani e gli italiani sono persone a cui piacciono le persone, e sono bravi ad aiutare gli altri, non necessariamente italiani”.

Il pregiudizio, però, lo ha conosciuto da vicino. “La prima volta è stato a scuola, soprattutto al liceo, dove molti altri compagni non erano di Corona. Anche quando sono entrato nell’esercito, ho visto altri pregiudizi. La prima volta mi ha molto stupito: la mia reazione è stata di delusione nel vivere qualcosa di cui avevo sentito parlare, ma che non avevo mai sperimentato”.
Quanto alle polemiche su Cristoforo Colombo, Ficalora dimostra di non tenerle in grande considerazione. “Penso che dare un riconoscimento ai meriti di Colombo sia una buona cosa. E se non avesse scoperto lui il Nuovo Mondo, lo avrebbe fatto qualcun altro”. Ma dell’esploratore genovese, il nostro interlocutore riferisce anche, per sentito dire, una storia del tutto alternativa sulle sue presunte origini greche (“Veniva da un’isola greca”), di cui sarebbe rimasto un segno nella “S” finale del cognome, perlomeno nella sua versione anglosassone (“Columbus”).
E alla nostra domanda sul motivo per cui, a suo avviso, in mezzo a tanti attori, politici, scrittori, uomini di affari e artisti italo-americani, questa comunità non abbia mai espresso un Presidente degli Stati Uniti, Ficalora fa nuovamente riferimento al pregiudizio: “Immagino che il pregiudizio generale americano non avrebbe necessariamente ritenuto un italo-americano accettabile alla maggioranza”, azzarda. “C’è una grande differenza tra il mettersi a servizio di una comunità come uomo d’affari ed essere un politico. I politici sono al servizio solo di se stessi”, aggiunge. Quel pregiudizio a cui Ficalora fa spesso riferimento deve averlo perseguitato per molta parte della sua vita. L’importante, però, è non lasciarsi bloccare dalle maldicenze. Lui, di certo, non lo ha mai permesso.